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Assalto All’Abbazia Di Tiglieto, La Piu’ Antica D’Italia: Un Progetto Per Farne Un Hotel Di Lusso

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Ha suscitato un vespaio di reazioni e polemiche, nel circuito dei social network, l’allarme lanciato su “X” da Dario Barone sulla nuova messa in vendita dell’Abbazia cistercense di Tiglieto (Genova), la più antica d’Italia. Lo storico complesso del XII secolo rischia di essere trasformato in un hotel di lusso con piscina, come ha rivelato l’autore del post che nel suo profilo si definisce “Prof. di Arte, Grafica e Cinema”. Il saggista ha scritto fra l’altro due libri di successo, intitolati Elogio della Bellezza e Curare l’anima con l’Arte. “Oltre il danno la beffa”, commenta lui stesso, pubblicando una foto del monastero: “L’Abbazia in passato è stata recuperata grazie a restauri finanziati (in parte) con soldi pubblici”.

ABBAZIA TIGLIETO veduta dall'alto

Non sarebbe la prima volta, e purtroppo neppure l’ultima, che un bene storico e artistico che appartiene al patrimonio nazionale rischia di essere definitivamente privatizzato. È accaduto, come Amate Sponde aveva a suo tempo già denunciato, anche per Villa Verdi, la tenuta di Sant’Agata e casa di campagna acquistata dal celebre musicista a Villanova sull’Arda (Piacenza). E furono proprio le proteste dei cittadini, suscitate dalla notizia diffusa dai media, a indurre il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, a porre un vincolo di “pubblica utilità” e a disporre l’esproprio per evitarne la vendita.

ABBAZIA 2

Ora è il turno dell’Abbazia di Tiglieto. “Ma non stiamo esagerando a svendere luoghi unici e che han fatto la nostra storia?”, reagisce polemicamente su “X” Luisanna Messeri. “Tristezza infinita. L’Italia viene venduta”, si legge sull’account Ridere fa bene. Incalza a sua volta Gianluca: “Ma non è possibile fare qualcosa? Questo è davvero un pezzo della nostra storia”, allegando la riproduzione della copertina di Andare per abbazie cistercensi, un volume scritto da Carlo Tosco (nella foto sopra).

In un altro post, Clara Toninelli segnala il volume Chiese chiuse (Einaudi) dello storico dell’arte Tomaso Montanari: “Saggio appassionato, quasi un pamphlet, contro l’incuria, l’abbandono, o la becera commercializzazione a cui è sottoposta una parte considerevole del nostro patrimonio artistico-culturale”. E cita in particolare il capitolo 7 del libro (nella foto sotto) e rilancia l’interrogativo: “Di chi sono le chiese?”, per chiedere: “E chi dovrebbe impedire che siano abbandonate al disfacimento, saccheggiate, messe in vendita?”.

ABBAZIA 3

 

E’ stato lo stesso Montanari a intervenire sulla questione, con un articolo apparso sul Fatto Quotidiano, in cui cita testualmente l’annuncio pubblicato dall’agenzia del lusso che sta curando l’affare: nella descrizione del bene rimesso in vendita, si legge fra l’altro che la superficie complessiva della tenuta è di 78 ettari. E si aggiunge: “Uno spazio che si presta perfettamente alla costruzione di un eliporto”. Ora, come spiega lo storico dell’arte, “Tiglieto è già – purtroppo – in proprietà privata. Ma ciò non elimina affatto la superproprietà collettiva del popolo italiano che insiste su tutti i beni, appunto, vincolati”. E ciò, a suo parere, “impone che beni come questi siano accessibili a tutti i cittadini, e non vengano snaturati nella loro funzione”. L’Abbazia di Tiglieto, invece, è stata per troppo tempo chiusa al pubblico, priva di qualsiasi attività di divulgazione, fino alla chiusura del parcheggio e alla mancata partecipazione alla rete culturale ed escursionista del Cammino dei Santuari del Mare.

ABBAZIA TIGLIETO rendering

 

A quanto risulta, si stima che le chiese abbandonate in Italia siano circa 95mila, la gran parte delle quali sarebbero beni culturali, e come tali sottoposte a tutela. Dal Salento, infine, Cristina Scappatura interviene nella polemica sull’Abbazia di Tiglieto e segnala: “Lo stesso hanno fatto a Ugento (Eremo della Madonna del Casale). La chiesa è intatta ma alle sue spalle, nell’antico convento, ora c’è un hotel (Badia del Casale)”.

Spetta, dunque, al ministero della Cultura valutare la situazione e prendere in carico il caso. Se il bene ha i requisiti previsti dalla legge, deve scattare anche per l’Abbazia il vincolo di “pubblica utilità”. Ed eventualmente, l’esproprio per evitare di perdere un altro pezzo pregiato della nostra “Grande Bellezza”.

IL PONTE-SFREGIO SULL’ARNO ALLE PORTE DI FIRENZE: 180 METRI, DUE CAMPATE. MONTANARI CRITICO

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Non è lungo come quello sullo Stretto di Messina, vagheggiato dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Ma è destinato ad alimentare ugualmente proteste e polemiche il nuovo ponte sull’Arno e sulla rete ferroviaria che, a nord-ovest di Firenze, dovrebbe scavalcare il fiume a 27 metri di altezza e costare 48 milioni di euro.

“Qui – racconta lo storico dell’arte Tomaso Montanari, in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano e intitolato Il ponte-sfregio – la densità antropologica e il volume della viabilità da tempo esigono un nuovo attraversamento dell’Arno”. E proprio questo era stato elaborato nel 2016 un progetto, la cosiddetta “Bretellina”, che presentava l’impatto ambientale più basso fra tutti quelli presentati. Ma proprio sul suo tracciato dovrebbe essere realizzata una zona umida, per compensare la sparizione del lago di Peretola destinato a essere distrutto dall’ampliamento dell’aeroporto di Firenze: un’espansione definita senza mezzi termini da Montanari “ambientalmente devastante” e “socialmente insostenibile”, perché a suo avviso “aumenterebbe ancora la pressione turistica su una Firenze ormai al tappeto”.

Nel suo intervento, l’articolista richiama l’enciclica Laudato sì di Papa Francesco, in cui si ricorda che “è sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative”. A cominciare, naturalmente, dagli abitanti del luogo. “Ed è davvero paradossale – conclude Montanari – che rispetto al sistema di potere del Pd toscano, col suo disprezzo per ambiente, democrazia, sincerità e verità, un’enciclica papale suoni ormai rivoluzionaria”.

PONTE ARNO 2

Dal sito web FirenzeToday, si apprende che il ponte avrà una pila e due campate, con una sezione trasversale di 17,45 metri e una lunghezza complessiva di circa 180 metri, con un solo appoggio dentro il fiume, come si vede da uno dei rendering diffusi. La prima campata – circa cento metri di lunghezza – è la più lunga e va dalla sponda nord del fiume sul lato del Parco di Bellariva al pilone sull’Arno posto a pochi metri dalla riva sud. La seconda campata, di 79 metri circa, è posta in corrispondenza del parco fluviale dell’Albereta sulla riva sud del fiume. Il ponte lo oltrepassa con un arco che ha un’altezza all’intradosso di circa 7 metri, “lasciando completamente libero il passaggio e garantendo oltre alla fruibilità anche la continuità del parco”, come assicura l’amministrazione comunale.

La sezione stradale è costituita da due marciapiedi laterali pedonali-ciclabili e da tre corsie carrabili: due in direzione nord (cioè in ingresso città, verso il parco di Bellariva e il Lungarno Colombo) e una in direzione sud (in uscita città, verso il parco dell’Albereta e via di Villamagna).

Per la realizzazione del nuovo ponte l’assessore alle Grandi Infrastrutture del Comune di Firenze, Stefano Giorgetti, parla di circa “dieci mesi di lavori”: l’infrastruttura dovrebbe essere pronta, quindi, prima della realizzazione completa della linea per Bagno a Ripoli e “assorbirà il traffico automobilistico sia in fase di cantiere, durante l’adeguamento del Ponte da Verrazzano con l’inserimento della sede tramviaria, sia per sopperire alla riduzione della sezione di traffico del Ponte da Verrazzano in fase di esercizio della nuova tramvia”.

Sono previsti anche un percorso ciclo-pedonale di raccordo fra il nuovo ponte e il viale interno del parco e l’inserimento di nuovi elementi di arredo urbano (sedute, illuminazione pubblica, aree di sosta-picnic, cestini dell’immondizia)”. Nel progetto, figura anche una nuova banchina di attracco e varo di mezzi fluviali leggeri.

“È il primo nuovo ponte sull’Arno che viene realizzato da decenni e darà una opportunità in più ai cittadini per attraversare il fiume. Sarà un tassello fondamentale per la linea che dal centro di Firenze arriva a Bagno a Ripoli”, commenta il sindaco di Firenze, Dario Nardella. “Si tratta di uno degli interventi più caratterizzanti la nuova linea, insieme alla riqualificazione di piazza Beccaria e dei viali”, sottolinea l’assessore Giorgetti.

CRISI CLIMATICA, SICILIA: QUANDO MANCA L’ACQUA ANCHE PER CURARE I PAZIENTI IN DIALISI

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La segnalazione proviene dall’account “Terra@Terra_Pianeta” che il 4 luglio ha postato su “X” (ex Twitter) questa foto con questa didascalia: “In Sicilia è difficile trovare i circa mille litri d’acqua che servono per ogni seduta per ogni paziente in dialisi. La priorità non è uno stramaledetto ponte, ma la Crisi Climatica”. E il giornalista Giovanni Valentini, già direttore del settimanale “L’Espresso” e ambientalista di lungo corso, ha subito commentato sullo stesso social: “Ecco fin dove può arrivare la crisi climatica…Leggere per credere!”.

Quando dice che il riscaldamento globale del pianeta – oltre a danneggiare l’ambiente – può causare conseguenze anche sulla salute collettiva, non si pensa in particolare ai bambini, agli anziani e agli ammalati. Ma l’idea che la siccità metta a rischio la sopravvivenza di coloro che soffrono di gravi disfunzioni ai reni, difficilmente passa per la testa dei cosiddetti “negazionisti”: cioè di coloro che negano, appunto, i cambiamenti climatici.

DIALISI
Un reparto di dialisi

Eppure, questo allarme deve far riflettere anche i più scettici. Se la siccità minaccia di compromette perfino le cure della dialisi, per cui occorrono mille litri d’acqua per ogni seduta del paziente, si può toccare con mano uno dei tanti effetti nefasti che il riscaldamento globale provoca al genere umano. E bisogna convincerli che tutto ciò dipende dall’inquinamento atmosferico, provocato dalle emissioni di gas nocivi con cui avveleniamo l’atmosfera: scarichi industriali, automobilistici e via dicendo.

Questi sono tutti “costi” occulti a carico della comunità che si ripercuotono ovviamente sul servizio sanitario nazionale. Quanto a quelli più evidenti, nella sua rubrica settimanale “SosClima” pubblicata sul Fatto Quotidiano sabato 6 luglio il meteorologo Luca Mercalli ha scritto che “le catastrofi naturali ci costano oltre 6 miliardi di euro all’anno”: una cifra astronomica che nel 2023 le compagnie assicurative hanno dovuto versare ai danneggiati, a titolo di rimborso, senza calcolare qui le spese a carico del bilancio statale. E questo riguarda soltanto l’Italia. Ma altrettanto vale per il resto del mondo, dove i fenomeni atmosferici “eccezionali” sono diventati ormai abituali: ai Caraibi, per esempio, l’uragano “Beryl” alla velocità di 265 chilometri all’ora ha causato recentemente distruzioni e 12 morti.

URAGANO Beryl
Danni provocati dall’uragano “Beryl” nei Caraibi

Per fermare questa apocalisse annunciata, bisogna invertire al più presto la rotta. Vale a dire ridurre in tutti i modi le emissioni inquinanti e nocive, per ridurre rapidamente il global warning. Il riscaldamento della Terra non è un’invenzione degli ambientalisti, bensì un’emergenza climatica da affrontare tutti insieme nel nostro stesso interesse e per le generazioni future.

ANGELO BONELLI

Il leader di Alleanza Verdi Sinistra, Angelo Bonelli (nella foto sopra) ha iniziato intanto una sua video-inchiesta in Sicilia per documentare con la forza delle immagini la crisi climatica. La prima tappa è stata il lago di Pergusa, descritto dalla mitologia greca come la porta degli Inferi, dove l’acqua non c’è più. “La causa del prosciugamento – ha postato su “X” – è legata alla siccità. Il 70% del territorio siciliano è in via di desertificazione”. Poi Bonelli è andato a Ravanusa, provincia di Agrigento, “la città dove l’acqua arriva una volta ogni 18 giorni”. E ha commentato: “Siccità e mala amministrazione della Regione Sicilia: una vergogna per l’Italia intera”. Terza tappa del viaggio, la piana di Catania: qui “centinaia di alberi di arance sono stati estirpati perché non c’è acqua: “Nel Trapanese – segnala Bonelli – i vigneti vengono estirpati e a Canicattì abbattono gli animali da stalla. Un disastro ambientale, economico e sociale”.

 

UE, LEGGE DI NATURA: TUTELARE LE AREE NATURALI A RISCHIO E RIPRISTINARE QUELLE DEGRADATE

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Con un voto a sorpresa, favorito da un inatteso dietro-front dell’Austria, il Consiglio europeo che riunisce i ministri dell’Ambiente dei Paesi membri ha approvato in extremis la controversa “Nature restauration law”. Questo provvedimento punta non solo a proteggere le aree naturali a rischio, ma anche a ripristinare quelle degradate stabilendo anche una tabella di marcia in tre tappe: il 30% di ogni ecosistema europeo dovrà essere oggetto di misure di ripristino entro il 2030, il 60% entro il 2040 e 90% entro il 2050. Tutto ciò per contrastare il cambiamento climatico che sta provocando allagamenti, inondazioni e grandinate, alternando periodi di lunga siccità che danneggiano l’attività agricola e la produzione di frutta e verdura. Il via libera è arrivato dopo mesi di stallo, in attesa delle elezioni europee che si sono tenute l’8 e il 9 giugno scorsi, con una maggioranza risicata del 66,07%, appena un punto al di sopra della soglia minima.

Osserva il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi in un articolo pubblicato su La Stampa: “Tra l’altro, si dovrebbero ripristinare le aree verdi rispetto all’estensione metropolitana, recuperare l’habitat degli insetti impollinatori, da cui dipendono ogni anno in Europa qualcosa come cinque miliardi di euro di produzione agricola e limitare l’agricoltura intensiva per tutelare la biodiversità vegetale minacciata. E poi il ripristino del corso naturale dei fiumi che avrebbe, con il senno di poi, limitato i danni e mitigato il rischio idrogeologico in Romagna, nelle Marche e in Toscana e in tutto il territorio italiano preda di alluvioni e frane”. E quindi aggiunge: “La rinaturalizzazione dei sistemi degradati avrebbe, infine, come postulato, l’incremento della capacità di resilienza rispetto alla crisi climatica attuale”.

plowed fields and green trees
Credit Endi Borek

È una svolta rilevante per la conservazione e il ripristino di quel patrimonio naturale che appartiene a tutti i cittadini ed è anche il presupposto per salvaguardare l’ambiente e la salute collettiva. Nonostante l’opposizione di categorie come gli agricoltori e i pescatori, preoccupati di tutelare i propri interessi ed evitare ricadute negative sulla loro attività, il provvedimento è stato definito “storico” da associazioni ecologiste come Legambiente e Wwf, oltre che dal Commissario per l’Ambiente Virginijus Sinkevicius, 33 anni, lituano.

Wavy meadows spring landscape in South Moravia, Czech Republic
Credit precinbe

Spiega Alessandra Muglia sul Corriere della Sera: “Decisivo il cambio di posizione della ministra dell’Ambiente di Vienna, la verde Leonore Gewelesser, che si è espressa a favore rompendo la linea della sua coalizione di governo”. È stata lei stessa a motivare la sua scelta, con queste parole: “Quando è in gioco la vita sana e felice delle generazioni future, sono necessarie decisioni coraggiose”. Ma, in dissenso con questo cambio di rotta, il Cancelliere austriaco Karl Nehammer ha annunciato un ricorso alla Corte di Giustizia europea per annullare il voto. Questo non impedirà, tuttavia, alla “Legge Natura” di entrare in vigore, essendo l’approvazione “giuridicamente vincolante”.

FRUTTA E VERDURA

Ha votato contro, invece, il governo italiano, insieme a Ungheria, Polonia, Paesi Bassi, Finlandia e Svezia. “Non possiamo accettare – ha dichiarato la nostra viceministra Vannia Gava – che si vadano ad accrescere gli oneri economici e amministrativi per il settore agricolo”. Sulla stessa linea si schiera anche la Coldiretti, perché l’accordo finale mantiene “un’impostazione ideologica sbagliata che mette in contrapposizione la natura e l’agricoltore, vero custode del patrimonio ambientale”.

Dall’agricoltura alla ristorazione, questo settore rappresenta complessivamente il 19% del Pil italiano. In pratica, vale ormai circa 600 miliardi di euro all’anno, generando quasi 335 di valore aggiunto. Nel 2022, i Paesi dell’Unione europea hanno importato prodotti agricoli per un valore di 196 miliardi, esportandone per 229 miliardi con un surplus commerciale di 33. Con la protezione delle aree naturali a rischio e il ripristino di quelle degradate, dunque, la nuova legge europea tende a salvaguardare l’ambiente, per sostenere e ampliare l’intero settore agro-alimentare.

La foto principale, in alto, è di Creative credit 

INTESA SANPAOLO, “IMPRESA IN CARCERE” PER 11 DETENUTI: PRODURRANNO QUADRI ELETTRICI

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Prende avvio presso la Casa Circondariale di Como (nella foto in alto) un nuovo progetto di impresa in carcere promosso da Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario italiano posizionato ai vertici mondiali per impatto sociale e leader europeo nella finanza sostenibile. L’iniziativa è stata presentata insieme al carcere comasco, da Don Gino Rigoldi, ispiratore del progetto, il Provveditorato regionale e le aziende clienti ingaggiate dalla Direzione Regionale della banca presente sul territorio che ha sviluppato il progetto coordinata dalla Direzione Sales & Marketing Imprese guidata da Anna Roscio, per favorire l’incontro fra imprese e lavoratori formati presso il laboratorio realizzato all’interno del carcere. Un modello virtuoso di collaborazione tra soggetti privati e pubblici nell’ottica del bene comune, per coinvolgre oltre al gruppo bancario, alla Casa Circondariale e al Provveditorato regionale, il gruppo MekTech, specializzato nella progettazione e costruzione di impianti e sistemi robotizzati, e la cooperativa Ozanam che favorisce l’inserimento nel mondo del lavoro di persone in difficoltà.

COMO 2

Il programma consente a 11 detenuti di specializzarsi nella realizzazione di quadri elettrici complessi commissionati da MekTech, offrendo una formazione tecnica per il rilascio di un attestato di partecipazione al corso per tecnico cablatore elettricista e un lavoro, contribuendo al loro percorso di riabilitazione sociale e di reinserimento nella vita professionale. Si tratta di un’attività che consentirà il potenziale inserimento al lavoro una volta che il detenuto avrà finito di scontare la propria pena.

Intesa Sanpaolo, attraverso la Direzione Regionale presente sul territorio e della Direzione Sales & Marketing Imprese, strutture della Divisione Banca dei Territori guidata da Stefano Barrese, si è fatta promotrice del progetto d’impresa nell’istituto penitenziario comasco, ritenendo fondamentale il sostegno al mondo del carcere in un più ampio programma di impegno nel sociale per l’inclusione dei più fragili anche nel mondo del lavoro. L’obiettivo è quello di favorire la riduzione delle disuguaglianze e il contrasto alla povertà, che rappresentano i pilastri nel piano di impresa fortemente voluti dal CEO Carlo Messina (nella foto sotto).

ISP Carlo Messina e Isybank

L’iniziativa è stata resa possibile grazie al coinvolgimento di Intesa Sanpaolo per il Sociale, nell’ambito dell’area Chief Social Impact Officer guidata da Paolo Bonassi. Questa struttura è dedicata al contrasto delle povertà e alla promozione dell’inclusione sociale che, attraverso le collaborazioni avviate sul territorio tra soggetti diversi, realizza alleanze e partenariati tra settore profit e non profit, pubblico e privato.

Mektech, l’azienda che ha condiviso il progetto, è un gruppo industriale altamente tecnologico, con sede a Giussano (MB). E si è impegnato ad acquistare nei prossimi anni i quadri elettrici realizzati dai detenuti e destinati agli impianti e ai sistemi robotizzati prodotti dall’azienda. Fondamentale la collaborazione con Ozanam, Cooperativa Sociale di Solidarietà di Saronno, che svolge il ruolo di “datore di lavoro” dei detenuti, presidio delle attività formative all’interno del carcere e di coordinamento dell’attività lavorativa. La Ozanam da oltre 30 anni si occupa di percorsi di inserimento lavorativo per persone “fragili” che segue con l’ausilio di personale specializzato attraverso percorsi individualizzati e in collaborazione con i Servizi territoriali.

La Casa Circondariale di Como ha coordinato le attività di ingaggio e di selezione dei detenuti che hanno l’opportunità di partecipare al progetto. E ha provveduto inoltre alla ristrutturazione e messa a norma, con fondi ministeriali, dei locali adibiti ad attività ricreative e sportive nonché del laboratorio che si estende su circa 180 metri quadri all’interno del carcere. Intesa Sanpaolo, grazie alle competenze coinvolte all’interno del Gruppo, ha supportato la ristrutturazione dei locali e ha messo a disposizione l’attrezzatura e la strumentazione di lavoro, gratuitamente per i primi due anni attraverso la società del Gruppo Intesa Sanpaolo Rent Foryou, dedicata al noleggio operativo. Nel laboratorio si realizzerà tutto il processo produttivo, dall’arrivo dei componenti fino alla realizzazione del prodotto confezionato dai nuovi tecnici.

In base ai dati diffusi dal Consiglio nazionale di economia e lavoro insieme al Ministero della Giustizia, sono oltre 60 mila le persone detenute nelle carceri italiane: 60 mila progetti di vita da raccogliere e ricostruire. Il 70% di loro cade nuovamente in errore, perdendo, dopo anni di reclusione, la possibilità di riscatto personale e di riabilitazione sociale. Sempre secondo le stime del CNEL, il tasso di recidiva scende al 2% quando viene avviato un percorso formativo e lavorativo. La professionalizzazione dei detenuti produce anche a minori oneri per la comunità, contribuendo al reintegro sociale, a una minore saturazione delle carceri e a maggiore sicurezza del territorio.

Con la piattaforma di raccolta fondi della banca For Funding, di cui ha beneficiato la stessa Casa Circondariale di Como, è stata possibile la realizzazione del “Percorso Vita”: una palestra costruita insieme ai detenuti nel più ampio progetto del Centro di Servizi per il Volontariato dell’Insubria, al fine di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa.

Ambiente A Pezzi: Le Proteste Degli Ecologisti Contro L’Autonomia Differenziata

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Mentre divampano le polemiche sulla riforma dell’autonomia differenziata, appena approvata dal Parlamento e definita la “secessione dei ricchi” dall’economista Gianfranco Viesti, il mondo politico si divide su quella che le opposizioni hanno definito la “legge spacca-Italia”. In attesa del referendum popolare in cui i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi a favore o contro, gli ambientalisti si mobilitano in difesa di un inestimabile deposito naturale che appartiene alla collettività. È il caso, per esempio, di Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, noto al grande pubblico televisivo.

MARIO TOZZI
Il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi

Con un interessante articolo intitolato “L’ambiente in frantumi”, pubblicato sul quotidiano La Stampa di Torino, l’autore lancia un allarme riassunto così nel sommario: “Per effetto della norma sull’autonomia, la tutela del territorio passa alle Regioni che potranno abrogare parchi nazionali, cancellare vincoli e anche aree protette. Qualcuna sarà più virtuosa dello Stato, ma i confini non sono amministrativi”. E cita un caso su tutti: con questa riforma, la salvaguardia di un patrimonio mondiale come la laguna di Venezia – sito Unesco dal 1987 – spetterà solo al Veneto. “Si tratta – commenta Tozzi – di un prevedibile disastro”. A suo avviso, per difendere l’ambiente “servono risposte globali coordinate”.

VENEZIA Piazza San Marco allagata
Venezia: piazza San Marco allagata dall’acqua alta

Spiega l’autore dell’articolo apparso su La Stampa: “La nuova legislazione italiana in materia ambientale sarà divisa in 20 legislazioni differenti con effetti che vanno dal paradossale al drammatico, passando per il ridicolo, come se l’ambiente potesse avere confini amministrativi di un qualche senso”. Una determinata Regione, per esempio, nell’esercizio dell’autonomia riconosciuta ora dalla riforma potrebbe abrogare un parco nazionale e istituirne uno regionale; oppure cancellare i vincoli ambientali e abrogare le aree protette. “Non è un caso che le legislazioni ambientali seguano in quasi tutto il mondo regole generali nazionali: è molto più complicato difendere aree protette e imporre vincoli ambientali se a chiederlo è il tuo elettorato sul territorio, condizionando il suo consenso alla libertà d’azione che gli viene concessa”.

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Una ripresa dall’alto, trasmessa sul Tg 5 (Mediaset)

Un altro aspetto ancora più grave, sottolineato da Tozzi, riguarda il fatto che il nostro Paese – a causa dell’incuria, della cementificazione selvaggia e anche per ragioni morfologiche che caratterizzano il suo territorio – detiene purtroppo il record europeo del dissesto idro-geologico: 620mia frane su 750mila censite in tutto il Continente. Un disastroso bilancio destinato ad aumentare con l’ultima ondata di maltempo che s’è abbattuta su Emilia Romagna e Veneto. Ogni regione – osserva il geologo – avrà la possibilità di modificare o annullare anche i vincoli sui rischi naturali che oggi sono imposti a livello nazionale”. Eventualmente, di concedere licenze edilizi o condoni su aree a rischio o di dover far fronte ai danni prodotti da alluvioni e terremoti con risorse esclusivamente regionali. Per non parlare, infine, della gestione delle acque e dei fiumi che attraversano diverse regioni e coinvolgono quindi diverse amministrazioni locali.

“In pratica – conclude l’articolista – il trasferimento alle Regioni delle competenze e risorse in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema, ama anche dei beni culturali, di governo del territorio, di trasporti ed energia, porterà a scelte territoriali differenti su temi cruciali, come i controlli ambientali, le politiche energetiche e la mobilità sostenibile”. Insomma, un “fai-da-te” ambientale che rischia di trasformare la nostra Penisola in un Paese-arlecchino.

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Nelle foto qui sopra e in alto, interventi dei Vigili del fuoco in seguito ad alluvioni e frane

Da registrare, poi, anche una protesta dei Vigili del fuoco veneti, segnalata su “X” dallo stesso professor Viesti, citando un articolo di Enrico Ferro apparso su Repubblica: “Il nostro – protestano i pompieri – è un corpo nazionale”. Appena approvata in Parlamento la riforma, l’assessore regionale alla Protezione civile del Veneto, Gianpaolo Bottaccin, ha lanciato la proposta di regionalizzare i Vigili del fuoco, sul modello della Provincia autonoma di Trento. “Il modello trentino – ha replicato subito il coordinamento regionale di Usb Vigili del fuoco, – è molto dispendioso in termini economici, come recentemente illustrato dalla Corte dei Conti”. E i rappresentanti dell’Unione sindacale di base aggiungono: “Altro aspetto da non sottovalutare sono le procedure operative e l’interoperatività con altre regioni”. A loro avviso, insomma, “se il Corpo sarà regionalizzato non avrà l forza economica di aprire nuovi sedi e arruolare un elevato numero di personale volontario, tale da coprire i turni di servizio”.

A TORINO, L’”ARCA” DI BIASIUCCI IN MOSTRA CON 250 FOTO ALLE GALLERIE D’ITALIA (FINO AL 6/1)

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Fino al 6 gennaio 2025, Intesa Sanpaolo presenta alle Gallerie d’Italia – Torino la mostra Antonio Biasiucci. Arca a cura di Roberto Koch. È il terzo capitolo del progetto “La Grande Fotografia Italiana”, avviato nel 2022 con la mostra di Lisetta Carmi e continuato nel 2023 con Mimmo Jodice per rendere omaggio ai grandi maestri della fotografia del Novecento del nostro Paese. La mostra, realizzata con il patrocinio della Regione Piemonte e della Città di Torino, rappresenta una delle esposizioni più importanti dedicata al fotografo, coprendo un periodo molto ampio della sua produzione.

Tra i maestri contemporanei più interessanti e innovativi del nostro tempo, Antonio Biasiucci (Dragoni, 1961) persegue ormai da molti anni una pratica che si ispira a una versione assoluta del linguaggio. Un lavoro complesso, non semplice ma preciso e puntuale che semplifica, forse addirittura scarnifica, il gesto fotografico in un rinnovare continuo di forme alla ricerca di simboli assoluti.

ARCA 2 Biasiucci
Il fotografo Antonio Biasiucci

In questa mostra, con oltre 250 fotografie esposte, per la prima volta i diversi capitoli del “poema utopico” di Biasiucci vengono presentati insieme. Tra potenti polittici, sequenze di immagini, opere singole, l’obiettivo è quello di realizzare una rappresentazione poetica ed estesa della vita degli esseri umani, in un periplo che tocca i temi profondi dell’esistenza, gli elementi essenziali del vivere partendo sempre dall’esperienza personale. E, dunque, dagli elementi autobiografici che hanno formato il carattere e la sensibilità dell’artista.

Afferma Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici Intesa Sanpaolo, afferma: “Nel lavoro delle Gallerie d’Italia, che racconta i diversi modi con i quali la fotografia esprime contenuti e bellezza, è irrinunciabile l’approfondimento sui grandi maestri italiani. A loro è dedicata la rassegna curata da Roberto Koch che giunge oggi al terzo allestimento e porta in città uno degli interpreti più suggestivi della fotografia contemporanea del nostro Paese, Antonio Biasiucci. Nei prossimi mesi, accanto ai reportage di Mittermeier, “Arca” impreziosirà l’offerta espositiva del museo di Piazza San Carlo grazie a memorabili installazioni dell’artista campano. Ancora una volta le Gallerie d’Italia condividono un’iniziativa di alta qualità artistica e valore culturale, contribuendo ad affermare l’identità di Torino come prima città italiana della fotografia.”

La ricerca di Biasiucci si adatta a grandi temi ancestrali, come il sapere, la base dell’alimentazione o il cielo stellato. Così, i volumi dell’archivio del Banco di Napoli che troviamo nella serie Codex, diventano, decontestualizzati, elementi architettonici, basamenti per nuove, possibili costruzioni. E i pani ripresi nel quotidiano lavorio delle mani appaiono come pianeti nell’universo, meteoriti che compaiono e scompaiono nel cielo. Ma questo stesso sguardo l’artista lo applica anche a contenuti di grande attualità, come il dramma dei migranti, cui si ispira la serie The dream.

Il nero profondo in cui spesso tutto è avvolto nelle fotografie di Biasiucci richiede allo spettatore uno sforzo particolare: quello di lasciarsi trasportare dallo stupore per poter vivere e riconoscere il lampo primigenio, la sorgente, l’origine della vita che riconosciamo in forme che si rivelano dinamicamente in trasformazione. Tutto ha a che fare con qualcosa di essenziale, come l’Arca che contiene archetipi o come la piramide, la costruzione utopica fatta di tanti possibili tasselli, di uno sforzo e di un sogno di assoluto.

Il progetto “La Grande Fotografia Italiana” prevede per ogni mostra l’intervento di un altro artista. E così sui tre monoliti che occupano lo spazio centrale dell’esposizione, tra i pani, i teschi e i calchi di Biasiucci, ecco le apparizioni inaspettate di Mimmo Paladino. I suoi disegni primitivi, i suoi numeri incisi nel nero dell’inchiostro, in un dialogo intimo con le fotografie, sono forme immaginifiche e nel loro essere infiniti e anonimi ci parlano della molteplicità degli esseri umani.

Le Gallerie d’Italia – Torino propongono al pubblico una modalità diversa di immergersi nel percorso della mostra, con la volontà di innovare l’esperienza di visita attraverso l’app Gallerie d’Italia: costruire immaginari condivisi, cambiare il registro narrativo, allargare il proprio punto di vista attraverso l’ascolto della voce dell’artista, è un’opportunità che viene offerta a tutte le persone che visiteranno la mostra. Mettersi virtualmente in dialogo diretto con l’autore e con la sua poetica, apre infatti alla magia di un racconto in cui si ascolta e permette di vedere più in profondità.

Il catalogo della mostra è realizzato da Edizioni Gallerie d’Italia | Skira.

INFORMAZIONI

SEDE: Gallerie d’Italia – Torino, Piazza San Carlo 156, Torino

ORARI: martedì, giovedì, venerdì, sabato e domenica dalle 9,30 alle 19,30; mercoledì dalle 9,30 alle 22,30; lunedì chiuso; ultimo ingresso: un’ora e mezza prima della chiusura.

TARIFFE: intero 10€, ridotto 8€, ingresso gratuito per convenzionati, scuole, minori di 18 anni e prima domenica del mese; ridotto speciale 5€ per under 26 e clienti del Gruppo Intesa Sanpaolo.

PRENOTAZIONI: http://www.gallerieditalia.com, torino@gallerieditalia.com, Numero Verde 800.167619

Voglia Di Nucleare: La Crisi Energetica E La Fusione “Verde”. Ma Il 75% Dice No (Ipsos)

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Al primo posto, c’è l’emergenza climatica, con il riscaldamento del pianeta prodotto dall’inquinamento atmosferico e di conseguenza gli sbalzi di temperatura, le piogge torrenziali, le alluvioni e le frane. Poi viene la guerra in Ucraina, con l’aumento del prezzo del petrolio e del gas, delle bollette e dei mutui. E quindi, la crisi energetica che spinge l’Occidente, e in particolare l’Europa, a cercare nuove fonti alternative, possibilmente “verdi” e non inquinanti per la salute collettiva, come il sole, il vento e le biomasse.

ENERGIE RINNOVABILI 1

È in questo contesto generale che cresce la voglia di un ritorno al nucleare. Naturalmente, come si dice con una certa dose di ipocrisia, il nucleare “pulito”. Vale a dire un’energia ricavata non più dalla fissione dell’atomo, bensì dalla sua fusione. E questa, a differenza dei tradizionali combustibili fossili, non produce CO₂ (anidride carbonica) né altri fattori inquinanti. L’ipocrisia non dipende tanto dalla tecnologia, quanto dal fatto che – secondo la maggior parte degli esperti – occorreranno dai dieci ai vent’anni per perfezionarla, metterla a punto e costruire eventualmente le nuove centrali. Costi a parte.

È stato recentemente il presidente francese, Emmanuel Macron, ad annunciare il progetto di sei centrali entro il 2050. E si sa che la Francia ne conta già 19 elettronucleari, con 58 reattori di cui 40 nell’entroterra e 18 in mare, dopo averne dismesso 12 più obsoleti. Con la startup Newcleo, fondata da tre nostri connazionali con sede in Inghilterra, Macron punta a investire fino a tre miliardi di euro nella regione di Lione entro il 2030. Ma sulla sponda opposta del Reno la Germania ha programmato invece lo smantellamento di tutte le sue centrali. E l’Italia, che cosa pensa di fare il nostro governo rispetto a questa alternativa? Nucleare “pulito” sì o no?

“Nell’aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) mettiamo nello scenario anche il nucleare, perché è la via obbligata”, ha dichiarato il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, al giornalista Luciano Capone per Il Foglio. E ha spiegato: “In Italia consumiamo circa 305 TWh (terawattore – ndr) di energia elettrica all’anno. Gli analisti dicono che la proiezione al 2050 è di un consumo di 700-750 TWh. Il fotovoltaico produce di giorno e ha il problema dei terreni; l’eolico possiamo farlo offshore, ma funziona solo quando c’è vento; si possono fare gli accumuli con le batterie, ma serve il litio…”. Noi, insomma, non abbiamo – secondo il ministro – risorse sufficienti per raggiungere la produzione di quei 750 TWh che sarebbero necessari e perciò dobbiamo ricorre al nucleare “di nuova generazione”, non più con le grandi centrali bensì con “somme modulari”: vale a dire, in pratica, con impianti di mini-reattori. Ed è lo stesso Pichetto Fratin ad annunciare, perciò, che “l’11% della richiesta arriverà dal nucleare”.

Sulla stessa onda, la viceministro dell’Ambiente Vannia Gava, leghista con delega al nucleare, in un’intervista a Gaetano Mineo per il quotidiano romano Il Tempo, ha ribadito: “Credo che l’energia da fusione sia assolutamente da studiare perché sarà l’elemento che ci porterà sicuramente verso la decarbonizzazione. Ma dobbiamo cominciare a lavorarci ora. E’ per questo che abbiamo fatto la piattaforma del nucleare sostenibile, coinvolgendo tutte le associazioni e gli stakeholders. Abbiamo anche messo 135 milioni nella piattaforma Mission Innovation proprio perché in questo tema non possiamo rimanere indietro”.

Su un altro quotidiano di centrodestra come il Giornale, diretto da Alessandro Sallusti, è apparso intanto un articolo intitolato “Anche i guru green sdoganano il nucleare”, a firma di Pier Luigi del Viscovo. E qui si fa il nome di Bill Gates, il mitico fondatore di Microsoft e campione dell’ambientalismo, che avrebbe deciso ora di investire nel nucleare. La sua società TerraPower ha iniziato la costruzione di un sito a Kemmerer, nel Wyoming, per produrre “un’energia sicura, abbondante e a zero emissioni di carbonio”.

Cooling towers of a nuclear power plant in the sunset.
Credit: Vencavolrab

Secondo un sondaggio Ipsos, pubblicato sul Fatto Quotidiano, il 75% degli italiani è contrario al nucleare e solo un quarto si ritiene a favore. Per la maggioranza dei cittadini, a tutt’oggi la costruzione di centrali nucleari per produrre energia nel nostro Paese non è una soluzione attuabile e non rappresenta una valida alternativa alle fonti fossili. Il motivo: è considerato dalla maggioranza degli intervistati “troppo pericoloso e poco conveniente”.

La ricerca è stata commissionata da Legambiente, Kyoto Club, Conou, Editoriale Nuova Ecologia e presentato a Roma in occasione della prima giornata dell’11esimo Ecoforum nazionale. Per il 54% degli intervistati, il governo dovrebbe incentivare invece la produzione di energie rinnovabili per favorire lo sviluppo dell’economia circolare.

Sono passati, dunque, quasi quarant’anni dal referendum popolare con cui nel 1987 gli italiani bocciarono il nucleare, come energia di distruzione e di morte. E in un Paese ad alto rischio sismico come il nostro, il problema della sicurezza resta centrale per la salute della popolazione. Ma non si tratta di fare una “guerra di religione” per affrontare una questione così delicata e decisiva per l’economia nazionale: se un giorno si raggiungesse la certezza, tecnica e scientifica, che lo sviluppo della tecnologia consente di adottare il nucleare “pulito”, sarebbe inutile e controproducente opporsi. Ma se arrivassimo a questo punto, sarebbe la migliore conferma che il No di 37 anni fa era giusto e dunque che le resistenze degli ambientalisti erano fondate.

La foto in apertura è di Daniel Prudek

Scossa Continua: Dai Campi Flegrei Fino A Napoli, La Terra Trema Ancora

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È stata la scossa più forte degli ultimi quarant’anni, magnitudo 4.4, quella registrata la sera di lunedì 20 maggio nell’area dei Campi Flegrei, arrivata fino al centro di Napoli. Ma era stata preceduta dalla prima di magnitudo 3.5 alle ore 19,52 ed è stata seguita poi da un’altra (3.9) alle 21,46. Ne hanno parlato e continuano a parlarne tutti i giornali e telegiornali, ma la verità – per quanto cruda e allarmante – l’ha detta il direttore dell’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv (Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Mauro Di Vito, in un’intervista rilasciata a Mariagiovanna Capone per il quotidiano napoletano Il Mattino e intitolata “La terra si solleva ancora, le scosse continueranno”.

Pozzuoli, the super active volcano of the Campi Flegrei. The solfatara is the only visible mouth with its fumaroles, while the whole city suffers the effects of bradyseism.

Già martedì 14 maggio l’Istituto l’aveva annunciato, prima di un incontro pubblico con i residenti di Bagnoli: “Con l’attuale tasso di sollevamento è possibile che si verifichino terremoti di magnitudo più alta”. E così è stato. In pratica, come spiega l’esperto, il suolo continua a sollevarsi di due centimetri al mese, il doppio di quello registrato da gennaio. Lui stesso ricorda che ad aprile scorso i terremoti erano stati 1.252. Alla domanda dell’intervistatrice se ci saranno atri eventi sismici, Di Vito risponde: “Sì avremo sicuramente ancora altri eventi sismici, non c’è dubbio”. E infatti nuove cinque scosse, di magnitudo da 2.3 a 3.7, sono state registrate nella notte fra il 7 l’8 giugno nella zona della Solfatara e le più forti si sono sentite anche a Napoli.

Nel frattempo, si rincorrono le voci più disparate. Da una parte, secondo Tommaso Ciriaco su Repubblica, l’ipotesi del governo sarebbe quella di “dare soldi a chi vuol andar via”, per incentivare l’evacuazione delle case nella zona interessata dal bradisismo. Dall’altra, Manuela Perrone scrive sul Sole 24 Ore che si va “verso lo stop a nuove case”.

CAMPI FLEGREI (dall'alto)
Una suggestiva foto dei Campi Flegrei, dall’alto, postata su “X” da Pier Luigi Pinna

Questa zona comprende circa 85.000 persone e 15.000 edifici, interessando in parte i Comuni di Pozzuoli, Bacoli, nonché parzialmente la città metropolitana e altre zone come Bagnoli, Fuorigrotta, Pianura, Soccavo, Posillipo, Chiaia, una parte di Arenella, Vomero, Chiaiano e San Ferdinando. La caldera dei Campi Flegrei, situata a ovest di Napoli, è una delle aree vulcaniche più densamente popolate al mondo. L’attività vulcanica in questa regione è documentata da almeno 47.000 anni. Due dei principali episodi eruttivi, che hanno contribuito a dare forma al Golfo di Pozzuoli così come lo conosciamo oggi, si sono verificati circa 39.000 e 15.000 anni fa, mentre l’ultima eruzione nota risale al 1538.

A partire dalla metà del secolo scorso, la caldera ha sperimentato vari episodi di sollevamento e abbassamento del suolo, noti come bradisismo. Negli ultimi decenni, ci sono state due fasi di sollevamento del suolo significative: una tra il 1969 e il 1972 e un’altra tra il 1982 e il 1984. Durante quest’ultima crisi bradisismica, il sollevamento massimo del suolo, misurato a Pozzuoli, è stato di quasi 1,8 metri ed è stato accompagnato da oltre 16.000 terremoti di bassa magnitudo.

In questa situazione, e di fronte alle previsioni dei tecnici, lo spavento e la preoccupazione dei cittadini sono dunque più che comprensibili e giustificati. Abitazioni lesionate, sgomberi e tendopoli alimentano l’allarme in una popolazione costretta a convivere con il bradisismo permanente. Ma è il direttore del Mattino, Roberto Napoletano, ad ammonire in un suo editoriale: “Ora nessuno si permetta più di sottovalutare e si speculare sulla paura”. E osserva: “Qui si tratta di mettere in sicurezza edifici e persone attuando una volta per tutte gli interventi necessari e piani di prevenzione troppo a lungo attesi o disattesi”. A parere di Napoletano, occorre innanzitutto “un sistema di prevenzione e di protezione civile organizzati che spende, anzi investe, sul bene primario di una società che è la difesa di una vita tranquilla e ordinata”.

The panorama of the beach of miseno, of the mountain of miseno with the lake of Bacoli behind it. A small peninsula in the Gulf of Naples

Sullo stesso quotidiano di Napoli, infine, è apparso un commento a firma di Pietro Gargano che racconta – come si legge nel titolo – “La caldaia ardente della Solfatara che ci inquieta”. Scrive l’autore: “Ben sappiamo che, ancora oggi, un terremoto non è prevedibile con largo anticipo, e ti colpisce a tradimento. (…) Ma bisogna convincersi che i geologi non sono profeti di malaugurio, si limitano a fare il loro mestiere. E dunque ci ricordano che una terra salda, non indebolita dal cemento e dal taglio degli alberi sani, resiste molto meglio ai tremiti e alle inondazioni”. Da qui, la conclusione che “bisogna costruire davvero usando i più moderni criteri antisismici, seppure costosi. E occorre verificare con la massima cura e competenza la staticità dei palazzi, nella metropoli, in periferia, nelle province”.

UN PONTE D’ORO: LE AZIONI DEI COSTRUTTORI SONO SALITE DAL 15 AL 30% IN UN ANNO

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Il detto popolare “A nemico che fugge ponti d’oro” è una metafora che suggerisce di lasciare sempre una via di fuga ai nemici, più o meno molesti, in modo da non fargli cambiare idea. Ma nel nostro caso si può ben adattare all’annosa questione che riguarda il controverso progetto per il Ponte sullo Stretto di Messina che dovrebbe unire geograficamente la Sicilia all’Italia. Il paradosso, però, è che quest’opera rischia di diventare letteralmente d’oro per i progettisti e i costruttori anche se alla fine non dovesse essere mai realizzata.

I conti li hanno fatti i due principali quotidiani italiani, il Corriere della Sera e Repubblica, che a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro hanno pubblicato due ampi e documentati servizi.  Il primo l’ha firmato Antonio Fraschilla, il 13 maggio scorso, sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, sotto il titolo “Solo progetti ma quotazioni alle stelle, chi già fa cassa sul Ponte che non c’è”. L’altro, intitolato “Ponte sullo Stretto. Gli ostacoli e i rischi”, è apparso sul Corriere del 27 maggio nella rubrica “Dataroom”, a cura di Domenico Affinito e Milena Gabanelli, la popolare giornalista televisiva già autrice e conduttrice di Report su Rai 3.

PONTE (modellino)

“Il Ponte non c’è, ma c’è chi sta guadagnando nell’iter messo in piedi dal governo Meloni che ha resuscitato la vecchia gara e i vecchi privati coinvolti quindi anni fa”, esordisce Fraschilla. E spiega: “Le azioni delle aziende italiane, spagnole e giapponesi dentro il consorzio Eurolink, che senza il decreto Salvini sarebbe oggi su un binario morto, sono cresciute nelle rispettive Borse dal 15 al 30 per cento nell’ultimo anno”. Nella compagine è entrato, intanto, anche l’imprenditore Valter Mainetti, editore del quotidiano Il Foglio.

Il consorzio Eurolink, come si legge più avanti nello stesso articolo di Repubblica, è composto al 45% da Webuild di Pietro Salini, al 18% dalla spagnola Sacyr Construccion, al 15% da Condotte Spa, al 13% dalla Cmc di Ravenna e poi dalla giapponese Ihi Coroporation (6%) e dalla Itinera Spa del Gruppo Gavio (2%). La partecipazione di Condotte è stata rilevata dalla Tiberiade Holding di Mainetti. Da quando è stato approvato il decreto Salvini, per accelerare l’iter dell’opera, il valore delle azioni Webuild nell’ultimo anno sono aumentate del 20%, segnando solo nell’ultimo mese un +30%; la Sacyr è salita del 23% e la Ihi del 15%. Il Ponte-fantasma, insomma, è già un bell’affare per tutti.

Nel frontespizio dell’aggiornamento del progetto, su cui il ministero dell’Ambiente ha chiesto 270 chiarimenti, compaiono poi altre due sigle rilevanti. La prima è la Rocksoil, fondata dall’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi che oggi appartiene al figlio Giuseppe. L’altra sigla è quella della Proger Spa, una società di Pescara che insieme a Rocksoil nel 2023 ha vinto la gara per l’aggiornamento della linea ferroviaria Ferrandina.

Conclude Fraschilla su Repubblica: “Nulla si sa sui contratti interni tra Eurolink e queste società. Anche se rispetti al 2011 c’è una novità: oggi il progetto Ponte è tutto a carico delle casse dello Stato”.

PONTE (rendering)

Nel sommario del loro articolo sul Corriere, Affinito e Gabanelli riassumono: “Stesso operatore e progetto del 2011, ma costi triplicati. Manca l’aggiornamento sismico e su eventi estremi e traffico. Gli espropri su 370 ettari dimezzano i prezzi di case e terreni”. E il resto è una requisitoria, data per data, capitolo per capitolo, contro il Ponte di Salvini.

“Si riparte dunque dal vecchio progetto – scrivono i due autori – bocciato anche dalla commissione di esperti del Mit (Ministero dei Trasporti – ndr) ad aprile 2021. Il problema posto dagli ingegneri è che non esiste ancora la tecnologia per un’infrastruttura di quel tipo a campata unica”: la più lunga al mondo, 3,3 chilometri sospesi in aria, sorretta da due piloni a terra alti 400 metri ciascuno.

In quello stesso anno, le università di Catania e Kiel (Germania) annunciano la scoperta di una faglia attiva di 34,5 chilometri lungo lo Stretto di Messina, fino a quel momento mai mappata, che ha deformato il fondale marino ed è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 7,1: il livello massimo sopportabile dalla struttura. Ma l’aggiornamento del progettista non ne tiene conto. Il 24 febbraio 2024 il Comitato scientifico indipendente esprime un parere positivo, a patto però che siano accolte 68 raccomandazioni. E cioè, nuovi approfondimenti sismici, nuove verifiche e previsioni che tengano conto di eventi estremi, una nuova analisi delle correnti marine e dei venti in rapporto a quel tipo di struttura.

Il 15 aprile scorso, come raccontano Affinito e Gabanelli, tocca al ministero dell’Ambiente chiedere ben 239 integrazioni al progetto. Di rincalzo, interviene anche il ministero della Cultura: “Avevamo già segnalato nel 2012 che la documentazione presentata non era esaustiva. Nel frattempo, partono gli espropri dei terreni interessati dal progetto sulla sponda siciliana e su quella calabrese: si stima che siano coinvolti 500 edifici (tra abitazioni e immobili commerciali) e 1500 terreni, su un totale di 370 ettari.

Ma il colpo di scena arriva con lo studio geologico commissionato dal Comune di Villa San Giovanni: sulle mappe catalogate da Ispra nel 2015, individua cinque faglie attive, una delle quali nell’area dove dovrebbe essere impiantato uno dei pilastri. Su quel tipo di terreno, dopo il terremoto dell’Aquila, s’è l’inedificabilità assoluta. E intanto, crollano i valori delle case in tutta la zona, alimentando le proteste della popolazione locale.

PONTE NO

In definitiva, scrivono ancora i due giornalisti del Corriere della Sera, il progetto del Ponte è rimasto quello del 2011. Ma il costo è passato da 3,9 miliardi di euro originari a 13,5. E la direttiva europea del 2014 impone una nuova gara quando l’importo di un’opera aumenta del 50%, anche se nel 2012 quello iniziale era già salito a 8,5 miliardi: nella migliore delle ipotesi, quindi, non si può sforare di un euro. “Il dato certo – concludono – è che il governo Monti aveva chiuso la partita perché le carte non mostravano la sostenibilità finanziaria e le cose non sono cambiate”.