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ALLARME NEVE

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È accertato ormai che il 2024 è stato l’anno più caldo della storia: o quantomeno, dal 1850 quando iniziarono le rilevazioni scientifiche sul clima. Lo attestano e lo documentano tutti i report ufficiali, a cominciare da Copernicus, il servizio meteo dell’Unione europea. E da questo punto di vista il 2025 non comincia, purtroppo, sotto un segno migliore (in alto, foto da “Green Me”).

Al di 10 di gennaio, si registra finora il 63% in meno di neve rispetto alla media 2011-2023. In pratica, la metà rispetto all’anno scorso. L’allarme è stato lanciato dal Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, con un articolo a firma di Davide Madeddu e Luca Salvioli. Ed è – per così dire – un doppio allarme: per la stagione turistica e sciistica invernale, ma anche per quella prossima estiva. La mancanza di neve minaccia mancanza di acqua e quindi, se la situazione non cambierà nelle prossime settimane, siccità nei periodi più caldi.

Già a dicembre l’andamento delle precipitazioni nevose sull’arco alpino era stato critico. Un po’ meglio è andata sugli Appennini, anche se a causa delle temperature più calde quella che è caduta è stata – come dicono gli esperti – una “neve effimera”: cioè, una neve che non si “posa” e non costituisce una base per future nevicate.

 

In valori assoluti, come scrivono gli autori dell’articolo, “le ‘scorte nivali’ presenti sul territorio italiano sono pari a un miliardo e 700mila metri cubi di neve, contro i 4,6 della media 2011-2023”. L’assenza di precipitazioni sta provocando l’assenza del manto nevoso, danneggiando l’industria dello sci e delle vacanze. E questo riduce la capacità delle Alpi come “serbatoio di acqua naturale”. Aggiungono i due giornalisti: “I dati storici dimostrano che un inverno povero di neve si traduce spesso in una ridotta portata dei fiumi nei mesi estivi, aumentando il rischio di siccità”.

EPA/LAURENT GILLIERON

La situazione migliore degli Appennini non lascia ben sperare. A dicembre la neve è stata abbondante, soprattutto in Emilia-Romagna, ma s’è sciolta rapidamente. E i gestori degli impianti sciistici sono corsi ai ripari “sparando” quella artificiale che, però, a sua volta consuma acqua da congelare.

Un segnale preoccupante viene dal bacino del Tevere. Nel giro di poche settimane, il livello dell’acqua è passato dalla media stagione a -88%. Un deficit che rischia di ripercuotersi in particolare sugli approvvigionamenti idrici del Lazio. A leggere i dati, insomma, “emerge che per molte regioni italiane l’inizio di questo inverno si colloca tra i peggiori per neve al suolo dal 2011”. E le stime stagionali di Ecmwf (l’European center for Medium-range Weather Forcasts) indicano un trimestre invernale più caldo della norma in tutta l’Europa, come sulle Alpi svizzere e francesi (sotto, foto da Torino Today”).

Foto da "Green Me"

Ha scritto il meteorologo Luca Mercalli sul Fatto Quotidiano: “Nei giorni intorno all’Epifania correnti umide e miti da Ponente hanno portato piogge a intervalli al Nord e su parte del versante tirrenico, anche copiose in Liguria, Appennino Tosco-Emiliano, Lombardia e Nord-Est (221 mm da domenica 5 a giovedì 9 gennaio sopra Sesta Godano, La Spezia; qualche frana nel Centro-Levante ligure), e sulle Alpi ha piovuto talora fino a 2000 metri. Dell’anomalia mite non si è accorto granché chi era nei grigiori della Pianura Padana – dove per diverse notti non ha gelato – ma altrove le temperature massime sono salite fino a 21 °C a Pescara martedì 7, e a 23 °C a Catania venerdì 10. Un cambiamento è in corso, brusco ma breve: venti freddi da Nord-Est portano molta pioggia al Sud e neve in Appennino, uno dei pochi ed effimeri sussulti di un inverno finora insignificante”.

L’annuncio di una nuova siccità, insomma, incombe sulla nostra Penisola. Se le precipitazioni naturali di pioggia e di neve non aumenteranno nelle prossime settimane, e le temperature non scenderanno, ai primi caldi la mancanza d’acqua si farà sentire da Nord a Sud. Per la popolazione, per l’agricoltura e per il bestiame.

OLTRE TRECENTO VOLONTARI ENEL RIQUALIFICANO PARCHI URBANI E SPIAGGE CON LEGAMBIENTE

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I volontari Enel insieme a Legambiente Volontariato Aziendale riqualificano parchi urbani e spiagge per rafforzare il legame con il territorio e creare valore per le comunità locali. In totale, durante l’iniziativa che si è da poco conclusa, sono stati raccolti oltre sei quintali di rifiuti indifferenziati, quattro di vetro, quattro di metalli e oltre due di plastica, più trenta chili di mozziconi e cartacce.

La nuova attività, svolta nell’ambito del programma di Volontariato aziendale targato Enel, ha coinvolto oltre 300 dipendenti schierati al fianco di Legambiente nelle iniziative di Park, Beach Litter e Riqualificazione Urbana. I dieci appuntamenti si sono svolti su tutto il territorio nazionale, in particolare nelle città di Ameglia (La Spezia), Milano, Catania, Catanzaro, Napoli, Padova, Palermo, Sassari, Pescara e Torino.

La collaborazione tra Enel e Legambiente Volontariato Aziendale dimostra che la sinergia tra aziende e associazioni può generare benefici concreti e duraturi. E contribuire così alla costruzione di comunità più consapevoli e sostenibili, in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu.

Le giornate di volontariato per l’ambiente rappresentano, inoltre, un’opportunità per i volontari Enel di ricevere una formazione sul campo e approfondire il valore dell’economia circolare, il rispetto per i luoghi pubblici e l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente e del contesto che ci circonda.

 

 

TORINO, INTESA SANPAOLO PRESENTA “CORPO, UMANO”: MARTEDI’ 21 GENNAIO (ORE 20,30)

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Al grattacielo di Torino, martedì 21 gennaio – ore 20,30, Intesa Sanpaolo presenta il reading-spettacolo “Corpo, umano” di Vittorio Lingiardi, realizzato in collaborazione con Giulio Einaudi editore per una co-produzione Intesa Sanpaolo e The Italian Literary Agency. Il corpo è al centro oggi di mille attenzioni: la medicina lo scompone in oggetti parziali, la vita online lo sottrae alle relazioni personali, la politica lo strumentalizza. Lingiardi lo riporta con sensibilità al centro della scena e ci rivela gli organi che lo compongono – dal fegato al cervello, dagli occhi al cuore – con la voce della scienza e del mito, dell’arte e della letteratura.

“Corpo, umano”, titolo dell’omonimo libro di Vittorio Lingiardi (Giulio Einaudi editore) da cui trae ispirazione lo spettacolo, è un viaggio multisensoriale che intreccia corpo e anima, scienza e amore, psiche e sentimento, vulnerabilità e forza nelle loro infinite sfaccettature. Guidati dalla voce magnetica dell’attrice Federica Fracassi, gli spettatori si immergono nella profondità del testo: un mosaico poetico e filosofico, capace di riflettere la complessità dell’individuo. Un’esperienza immersiva che attraversa i confini tra emotivo e razionale, aprendo uno spazio in cui ognuno può specchiarsi e riconoscersi, esplorando il mistero di ciò che significa essere umani.

In questo reading-spettacolo, letteratura, arte visiva e suoni dialogano in un linguaggio polifonico e universale, dove la parola si fa immagine, l’immagine vibra di musica e la musica scava nelle profondità del sentire. Drammaturgia di Gianni Forte e Vittorio Lingiardi. Regia di Gianni Forte, con Federica Fracassi e Vittorio Lingiardi.

L’esperienza dei reading teatrali, curati da Giulia Cogoli, continua dunque dopo gli appuntamenti degli anni scorsi con Daniel Pennac, Paolo Rumiz, Benedetta Tobagi, Maurizio de Giovanni e l’omaggio a Tiziano Terzani. Anche questo spettacolo è inserito nel palinsesto culturale, realizzato nel grattacielo della Banca, che si caratterizza per la qualità dei contenuti e la notorietà dei protagonisti: artisti, attori, scrittori, conferenzieri. Dal 2015, anno di apertura, oltre 142 mila persone hanno seguito le attività culturali del grattacielo, diventato in pochi anni un centro di cultura, arte e svago, nonché sede di lavoro per duemila persone di Intesa Sanpaolo.

FERROVIE IN TILT: MAXI-RITARDI E CANCELLAZIONI. MA ORA IL GRUPPO FS PRESENTA UN ESPOSTO PER IL SOSPETTO DI “SABOTAGGI”

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La responsabilità politica sarà pure del ministro dei Trasporti. Ma quella operativa e gestionale spetta tutta al nuovo management delle Ferrovie dello Stato: l’amministratore delegato del Gruppo Fs, Stefano Donnarumma, insieme a quello di Trenitalia, Luigi Corradi. Sono loro i maggiori responsabili del blackout continuo che sta paralizzando la rete ferroviaria italiana, danneggiando ormai quotidianamente i passeggeri e in particolare i pendolari che devono raggiungere ogni giorno il posto di lavoro. Tanto che, dopo i ripetuti episodi degli ultimi tempi, FS ha presentato un esposto alla magistratura, avanzando il sospetto di “sabotaggi”.

Fino a pochi mesi fa, sotto la gestione del precedente amministratore delegato di FS, Luigi Ferraris, i treni in Italia circolavano più o meno regolarmente. Poi è cominciata la “stagione delle grandi opere”: gli interventi di ristrutturazione e potenziamento della rete previsti dal Pnrr, con i fondi europei, partiti in ritardo per colpa dell’ex ministro Raffaele Fitto. E perciò, con oltre 400 cantieri aperti tutti insieme, i lavori si sono accavallati su tutta la linea creando i ripetuti disagi registrati negli ultimi tempi.

Uno studio dei Radicali documenta che, fra ottobre e dicembre, il 72% delle Frecce di Trenitalia sono arrivate in ritardo, per un totale di 50 ore perse al giorno. La linea Roma-Firenze dell’Alta Velocità è stata funestata da interruzioni e rallentamenti. E ora s’aggiunge il guasto alla linea elettrica che ha mandato in tilt il nodo nevralgico di Milano Centrale, provocando cancellazioni e maxi-ritardi fino a quattro ore su tutte le tratte del Nord. È scoppiato così il caos. Tanto che la stessa direzione di Trenitalia è stata costretta ad arrendersi e ad alzare bandiera bianca, invitando addirittura i viaggiatori a “evitare o limitare gli spostamenti in treno a quelli strettamente necessari e di riprogrammare i viaggi rinviabili”. Solo alle 15,20 è stata annunciata la riattivazione della circolazione.

In un post pubblicato su “X”, l’ex premier Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, ha scritto: “Il ministro dei Trasporti Salvini forse si è perso con lo sguardo per aria, alla ricerca dei satelliti di Musk da sponsorizzare. Dovrebbe invece avere lo sguardo ben saldo sulle nostre stazioni ferroviarie: oggi un’altra giornata nera di ritardi dei treni nell’indifferenza dei più”.

Prima di quest’ultimo episodio, se ne erano verificati almeno altri tre di una certa rilevanza. Il 2 ottobre scorso, per un errore di manutenzione, un chiodo aveva bloccato la circolazione in mezza Italia. Il 30 novembre un treno-lumaca da Reggio Calabria a Milano aveva accusato un ritardo di addirittura 468 minuti. E ancora, proprio alla vigilia di Natale, il 24 dicembre un altro treno Lecce-Milano era arrivato con 162 minuti di ritardo.

Siamo arrivati, dunque, a una “paralisi annunciata”. Una Caporetto ferroviaria. E tutto ciò mentre l’Ad Donnarumma vagheggia un piano da 100 miliardi di euro in cinque anni che dovrebbe aumentare di 100 milioni il numero dei passeggeri oltre i 570 attuali. Ma, di questo passo, il nuovo Piano industriale del Gruppo FS rischia di naufragare e di restare lettera morta.

I dati dell’Osservatorio Cantieri, pubblicati sul sito del ministero, parlano chiaro. In un post pubblicato su “X”, @UGirovago77000 riferisce che al momento “su 38 opere finanziate solo 7 rispettano i tempi”. E dalla stessa fonte risulta che “su 70 miliardi stanziati sono stati pagati solo 6 miliardi e 500 milioni per avanzamenti”. Commenta l’autore: “Un disastro certificato”.

Nel frattempo, come se niente fosse, il ministro Salvini (nella foto sopra) continua a immaginare il suo Ponte sullo Stretto di Messina da (almeno) 15 miliardi che, come sostiene l’economista Gianfranco Viesti, “non serve a niente” e anzi sottrae risorse al potenziamento della rete siciliana. Un “albero della cuccagna” – come Amate Sponde ha già riferito – che con ogni probabilità distribuirà soldi alle imprese che partecipano a questo progetto, anche se alla fine non riusciranno a completare l’opera.

Ai tempi del fascismo, si diceva che il regime facesse arrivare i treni sempre in orario. Ed evidentemente, il ministro dei Trasporti sta facendo di tutto per dimostrare che lui non è fascista. Ma c’è anche da pensare che, portando al disastro le Ferrovie dello Stato, voglia accelerare la sua uscita da questo ministero per trasferirsi magari a quello dell’Interno, per difendere “i confini nazionali” – come dice lui – dall’arrivo dei migranti. E questo, sul piano elettorale, può rendere senz’altro di più delle ferrovie che non funzionano.

TRANSIZIONE ENERGETICA, ENEL PROMUOVE PERCORSI DI FORMAZIONE AD ALTA SPECIALIZZAZIONE PER PREPARARE I GIOVANI AL MONDO DEL LAVORO

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Il Gruppo Enel promuove percorsi di formazione ad alta specializzazione tecnologica dedicati alla transizione energetica. Sono stati avviati nuovi anni accademici delle Fondazioni ITSEL di Civitavecchia e dell’ITS di Macomer, per offrire un’ulteriore opportunità a tanti giovani che, al termine della scuola superiore, optano per una formazione didattica altamente aderente alle esigenze del mondo delle imprese e del lavoro.

Gli Istituti Tecnologici Superiori (ITS Academy) sono una realtà ancora poco conosciuta in Italia. Ma sono in grado di favorire concretamente l’inclusione lavorativa, secondo una strategia fondata sulla connessione delle politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali. Si tratta di percorsi di eccellenza, ad alta specializzazione tecnologica dopo il diploma, finanziati da fondi pubblici, che prevedono l’erogazione – tramite fondazioni appositamente costituite – di un corso biennale di circa 1.800 /2000 ore, di cui una parte svolta in tirocinio presso le aziende.​

Attraverso le collaborazioni con  Fondazione ITS Academy Energia Sardegna  (NU) e Fondazione ITSEL (Istituto Tecnologico Superiore per l’Energia del Lazio) di Civitavecchia, Enel intende offrire un’opportunità per un futuro da protagonisti del settore dell’energia. Ai percorsi formativi collaborano anche alcune aziende dell’indotto Enel, con docenze e tirocini. Inoltre, alcuni dipendenti Enel in qualità di volontari di competenza ed esperti ANSE (Associazione Nazionale Seniores Enel), con il loro bagaglio professionale e culturale difficilmente reperibile sul mercato, saranno a disposizione per alcuni moduli formativi. Circa la metà delle ore di formazione viene erogata da esperti provenienti dal mondo aziendale e i percorsi didattici possono essere aggiornati ogni anno in base alle mutate esigenze del contesto.

Foto di Roberto Caccuri/Contrasto

Per quanto riguarda il corso già attivo, gli studenti del primo biennio di Macomer hanno sostenuto l’esame di specializzazione su fonti rinnovabili e sistemi di accumulo; mentre a Civitavecchia 24 studenti stanno proseguendo il percorso formativo iniziato a novembre 2023 in efficienza energetica ed energie rinnovabili. Nel 2024 hanno preso il via i corsi del nuovo biennio, a cui si è aggiunto anche un corso di specializzazione con sede ad Albano Laziale.

Si tratta di una grande opportunità che rappresenta anche un significativo investimento per il futuro. Dal rapporto INDIRE 2024, basato su dati 2022, l’87% (87,9% nel comparto energia) dei diplomati ha trovato occupazione entro un anno in un settore quasi sempre coerente con i propri studi. Alcune aziende dell’indotto e del territorio contribuiscono all’accoglienza dei ragazzi in tirocinio e alcuni studenti sono stati accolti da società del Gruppo Enel.

 

IL PONTE DELLA CUCCAGNA: “NON SERVE E COSTA TROPPO”, DICE L’ECONOMISTA VIESTI. A RISCHIO 15 MILIARDI

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“Il bluff del Ponte”, abbiamo titolato il 9 aprile 2024 su Amate Sponde, pubblicando il testo integrale dello studio (53 pagine) con cui il Comitato scientifico aveva smontato il progetto sullo Stretto di Messina e segnalato ben 69 punti critici (https://www.amatesponde.it/il-bluff-del-ponte/). E “Il bluff del Ponte che non serve”, è il titolo dell’articolo a firma dell’economista Gianfranco Viesti, apparso il 3 gennaio sul Fatto Quotidiano. Con la competenza e l’autorevolezza che gli vengono comunemente riconosciute, il professor Viesti analizza le ragioni tecniche e geografiche che – a suo avviso – “dovrebbero far comprendere che i 15 miliardi (almeno) per questa grande opera potrebbero essere investiti in progetti più utili ai collegamenti Nord-Sud”. Uno spreco di Stato, dunque, per un’opera destinata probabilmente a restare incompiuta.

Il modellino del Ponte sullo Stretto di Messina

Perché il Ponte sullo Stretto – secondo l’economista – non è una buona idea? “Tanto per cominciare – risponde l’autore dell’articolo – ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si trovano in nessun altro caso al mondo”. E cioè: la lunghezza della campata unica (3.600 metri di cui 3.300 sospesi nel vuoto contro il record attuale di 2.023); la sismicità dei luoghi interessati; l’altezza del Ponte sul mare (due torri alte 399 metri); l’impatto dei venti che attraversano lo Stretto.

“Le grandi opere – osserva Viesti – possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano”. E lui stesso aggiunge: “In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni”. Il peggio è che esiste “il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento”. Una specie di “albero della cuccagna”, insomma, per tutti coloro che a vario titolo parteciperanno a questo progetto.

Ma, pur ipotizzando che i dubbi di carattere tecnico vengano risolti e superati, resta comunque il problema economico, con la domanda “sarebbe bene farlo?”. Risponde il professo Viesti: “Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo”. Tuttavia, secondo l’economista, la vera domanda non è “sì o no al Ponte”, ma piuttosto “quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria e quindi dell’intero Paese?”.

A suo parere, “puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi siciliani e calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città”. A sostegno della sua tesi, da docente di Economia applicata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, Viesti cita il “Rapporto Pendolaria” di Legambiente, per la quantità di fatti e di dati che offre. Un esempio per tutti: “Fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano”. E dunque, “il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato”.

Il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini

In polemica indiretta con l’euforia del ministro dei Trasporti Matteo Salvini, per Viesti il progetto del Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario di un confronto collettivo che all’insegna della trasparenza dovrebbe coinvolgere l’intera comunità interessata. L’economista elenca, infine, le incognite che gravano come un’ipoteca sul progetto: “La retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti”.

Il rendering del Ponte sullo Stretto di Messina

Da registrare, in contemporanea, un dossier di Claudia Benassai e Fabrizio Bertè pubblicato sul settimanale L’Espresso sotto il titolo “Il Ponte che divide”. Un’opera della discordia su cui, a loro avviso, “piovono soldi e contenziosi”. Secondo i due giornalisti, “con la previsione di altri 1,5 miliardi il conto sale a 13,6, mentre parte il ricorso al Tar degli ambientalisti sulla valutazione di impatto naturalistico nell’area”. E loro stessi riferiscono la “levata di scudi contro l’opera compensativa prevista dalla società dello Stretto di Messina che punta a creare un lago per l’area di sosta degli uccelli migratori”, considerata dagli ecologisti “inutile e dannosa”.

Per riassumere: un Ponte “che non serve”, come dice Viesti. Ad alto rischio sismico. Troppo costoso. Di forte impatto ambientale. E, al momento, non si sa neppure se si farà mai.

LE “DUE ITALIE” DEI RIFIUTI: TARI, 94% AL NORD E 77% AL SUD. UN GETTITO DI 10,5 MILIARDI DI EURO

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Le “due Italie” non sono divise soltanto da ragioni economiche e sociali, ma anche dai rifiuti urbani. A documentarlo è uno studio di 31 pagine redatto dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), secondo cui il Nord riesce a incassare il 94% della Tari dovuta, mentre al Sud arriva appena al 77%. La riscossione della tassa sui rifiuti diventa così un ulteriore termine di paragone per misurare l’attualità della “questione meridionale”, attraverso il gap fra la parte più avanzata e progredita del Paese e quella ancora più arretrata.

Con il suo gettito annuo di 10,5 miliardi di euro, calcolati dall’Upb, la Tari segna così forti disparità territoriali nei costi di gestione dei rifiuti. E la causa principale è il deficit d’impianti che nel Mezzogiorno provoca più costi e meno incassi. Tant’è che il 71,5% dei rifiuti viene trattato al Nord, il 9,7 al Centro e il 18,8 al Sud, dove dominano le discariche che ne raccolgono il 43,4% contro il 26% delle regioni settentrionali.

 

“La mancata riscossione – come scrive Gianni Trovati sul Sole 24 Ore – finisce per scaricarsi almeno in parte sulle bollette di chi invece paga puntualmente, per la clausola che impone la copertura integrale dei costi di servizio”. Un po’ come avviene, insomma, nei condomini dove i morosi penalizzano i più virtuosi. Questi “buchi” cumulano poi una mole di residui attivi (entrate accertate ma non ancora riscossa) di 15,2 miliardi di euro nei bilanci del Comuni.

La Tari è, infatti, il secondo tributo comunale per importo dopo l’Imu. L’imposta municipale dovuta per il possesso dei fabbricati, esclusa la prima abitazione. E, naturalmente, più i Comuni sono grandi e meno riscuotono la tassa sui rifiuti. Una situazione che si ripercuote di conseguenza sulla loro capacità di spesa e quindi sulla qualità dei servizi prestati ai cittadini (dalla scuola pubblica ai trasporti locali).

Osservano nel loro focus gli esperti dell’Ufficio parlamentare di bilancio: “Il superamento dei divari territoriali nella dotazione impiantistica delle regioni nel Centro e nel Sud, che è tra gli obiettivi del PNRR, è cruciale per far sì che la Tari diventi uno strumento efficace per ridurre le quantità di rifiuti prodotti, per rendere l’imposizione equa tra diverse aree del Paese e per aumentare la capacità degli Enti locali di coprire i costi del servizio”.

Qui torna in ballo, dunque, la vexata quaestio dei termovalorizzatori: quegli impianti, cioè, che non solo “bruciano” o inceneriscono i rifiuti, ma soprattutto li valorizzano ricavandone energia. A Brescia, per esempio, funziona da molti anni un impianto che seleziona i rifiuti e li utilizza per erogare il teleriscaldamento. Altrettanto, intende fare il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, per risolvere i problemi che affliggono la raccolta urbana nella Capitale, dove spesso i cassonetti sono stracolmi e a volte i cittadini abbandonano televisori, frigoriferi o materassi per strada. Ma non mancano le contestazioni e le polemiche da parte degli ambientalisti, preoccupati dal sospetto che poi questi impianti possano immettere nell’aria sostanze tossiche e inquinanti.

Un buon esempio viene dall’estero, da diverse città – come Lisbona – che hanno installato impianti interrati per il deposito differenziato dei rifiuti: carta, vetro, plastica e metallo. Questo consente, fra l’altro, il recupero delle materie prime con il riciclo e un risparmio nella loro riproduzione. Una soluzione certamente più efficiente e igienica, oltre che esteticamente apprezzabile.

INTESA SANPAOLO: FINANZIAMENTO DI 10 MILIONI A UNICALCE (11 STABILIMENTI) PER LA CRESICTA SOSTENIBILE

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La crescita sostenibile è sempre più al centro dei progetti di sviluppo della Unicalce, azienda di Lecco, principale produttore italiano di calce calcica, dolomitica e prodotti derivati con 11 stabilimenti su tutto il territorio nazionale. Una mission che ora si rafforza grazie al finanziamento di 10 milioni di euro erogato da Intesa Sanpaolo, nell’ambito dell’impegno del Gruppo bancario per accompagnare le imprese nella transizione ambientale e dare supporto agli investimenti legati al PNRR. Con queste nuove risorse, Unicalce mira a promuovere sostenibilità e innovazione tramite significativi investimenti per il risparmio energetico, l’utilizzo di combustibili ed energia da fonti rinnovabili e circolari, lo sviluppo di nuovi prodotti con ridotta impronta carbonica.

Intesa Sanpaolo ritiene fondamentale sostenere lo sviluppo di un’economia sostenibile, riconoscendo la rilevanza degli investimenti che vengono inquadrati nei tre criteri ESG. In questa ottica, il Gruppo ha messo a disposizione uno specifico finanziamento denominato S-Loan, in cui rientra l’erogazione a Unicalce, ideato per accompagnare gli sforzi delle imprese nella direzione di una maggiore sostenibilità sotto il profilo ambientale, sociale e di governance. Una tipologia di finanziamento che sostiene le esigenze del tessuto produttivo con condizioni dedicate agevolate, grazie alle riduzioni di tasso che saranno riconosciute al raggiungimento degli obiettivi di miglioramento in ambito ESG.

Dichiara Luca Negri, Direttore Generale Unicalce: “In continuità con il nostro piano industriale, questo finanziamento contribuirà agli investimenti legati alla decarbonizzazione e digitalizzazione dei nostri processi”.

Commenta Daniele Pastore, Direttore Regionale Lombardia Nord Intesa Sanpaolo: “Questo finanziamento accompagna Unicalce nello sviluppo di un modello di economia circolare efficiente in grado di garantire una gestione virtuosa dell’energia e a basso impatto ambientale. Per le nostre imprese la sostenibilità è un asset irrinunciabile e Intesa Sanpaolo mette a disposizione tutte le risorse e gli strumenti necessari per sostenerne i piani di sviluppo volti a cogliere le opportunità presenti e di lungo periodo. A oggi, nell’ambito delle specifiche linee di finanziamento S-Loan e Circular Economy, abbiamo erogato alle imprese lombarde oltre 2 miliardi di euro per investimenti con obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale”.

RISCHIO CLIMA PER 73MILA AZIENDE: OCCORRONO 226 MILIARDI DI INVESTIMENTI PER METTERLE IN SICUREZZA

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In base a un’analisi sui dati di 750mila società italiane di capitali – elaborata dal Cerved, la società informatica di gestione fondata nel 1973 – sono 73mila le aziende più “esposte” al rischio climatico e agli eventi estremi. Lo riferisce Luca Orlando in un ampio articolo pubblicato sul Sole 24 Ore. E perciò queste imprese dovranno sostenere investimenti aggiuntivi per 226 miliardi di euro per decarbonizzarsi e raggiungere l’obiettivo “zero emissioni” entro il 2050.

Il rischio – come spiega lo stesso giornalista – attiene a due aspetti distinti, ma collegati fra loro: il rischio di transizione e quello ambientale. Il primo, relativo alla transizione energetica ed ecologica, riguarda gli investimenti e le relative risorse necessarie per un processo di aggiustamento verso un’economia a basse emissioni di carbonio. L’altro rischio misura il livello del potenziale impatto delle attività di ciascun settore sull’ambiente, a prescindere dalle eventuali azioni di mitigazione adottate in quattro ambiti: biodiversità, inquinamento, produzione dei rifiuti e consumo di risorse idriche.

Un impianto di raffinazione e produzione del settore OIL&GAS

Le aziende più esposte alle catastrofi provocate dal rischio climatico sono, nell’ordine, quelle del comparto Oil&Gas, sia nell’estrazione e produzione sia nella raffinazione e nel commercio. Seguono quelle che operano nella produzione di energia; quelle del cemento, del ferro e dell’acciaio; dei materiali da costruzione e nell’agricoltura. Quindi l’automotive, la chimica, il sistema moda, i trasporti e la logistica. Tutte insieme cumulano debiti complessivi per 207 miliardi di euro.

In media, secondo le stime del Cerved, ciascuna di queste aziende dovrebbe spendere oltre tre milioni di euro per arrivare al “net zero”. Ma soltanto 15 milia imprese (il 21,4% del cluster) sarebbe in grado di sostenere questi oneri, indebitandosi per 46 miliardi senza compromettere i propri bilanci. Dichiara al Sole 24 Ore il presidente esecutivo della società informatica, Carlo Purassanta: “Solo un’azienda su cinque è oggi in grado di coniugare sostenibilità e competitività, mantenendo la propria stabilità finanziaria”.

La quota maggiore degli investimenti aggiuntivi spetta all’Oil&Gas per oltre 122 miliardi (di cui 58,6 per exploration&production e 63,5 per refining&marketing). Al secondo posto, c’è il settore della produzione di energia con 74,7 miliardi. E quindi, trasporti e logistica (13 miliardi), ferro e acciaio (7,3), cemento (4) materiali da costruzione (1,8) e chimica (1,35). Ma, conclude l’articolo Orlando, “se in media solo il 21% del campione ha al momento margini gestibili per debiti aggiuntivi, è l’agricoltura il settore più a rischio, con una quota di aziende in sicurezza pari solo al 13%”.

L’alluvione in Emilia Romagna

È chiaro, dunque, che per non pregiudicare la tenuta di queste aziende, e di conseguenza i rispettivi livelli occupazionali, occorre una politica industriale nazionale improntata alla transizione ecologica e al contrasto dei cambiamenti climatici. Dato che la maggior parte delle imprese – a cominciare da un settore fondamentale per la filiera alimentare com’è l’agricoltura – non possono sostenere da sole tali investimenti, spetta al governo assumere la guida di questa trasformazione e sostenerla nell’interesse generale. Si tratta di comparti strategici per l’economia e per l’intera società. Sappiamo ormai tutti per esperienza, diretta o indiretta, che gli “eventi estremi” – piogge torrenziali, alluvioni, frane, smottamenti e quant’altro – sono purtroppo all’ordine del giorno e non possono essere più catalogati come “calamità naturali”.

Un recente rapporto di Legambiente registra un notevole aumento degli eventi meteo avversi in Italia: nel corso del 2024 se ne sono verificati 351, con un incremento del 485% negli ultimi dieci anni rispetto al 2015. Mentre – secondo il Wwf – gli eventi climatici estremi dall’inizio dell’anno sono stati complessivamente 1.899, di cui 212 tornado, 1.023 nubifragi e 664 grandinate, come attesta l’Osservatorio ANBI sulle risorse idriche, con tre alluvioni disastrose in Emila Romagna.

ROMA, ALBERI-KILLER: DOPO IL CROLLO DI UN PIOPPO CHE HA UCCISO UNA DONNA DI 45 ANNI, VIA INDAGINE

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Proprio alla vigilia di Natale, mentre nella Capitale e in tutte le altre città s’innalzano gli alberi delle Feste, un grande pioppo di circa 20 metri è crollato a Roma nel “Parco Livio Labor”, in zona Colli Aniene, schiacciando Francesca Ianni, una donna di 45 anni seduta su una panchina, che aveva portato i figli a giocare all’aperto. Ferita gravemente un’amica che era con lei. Sono rimasti illesi, invece, i due bimbi di 10 e 12 anni e la bimba di 7.

L’area dell’incidente (dal Messaggero)

La Procura della Repubblica indaga per omicidio colposo. Ma non è purtroppo il primo albero sradicato dal vento nella Capitale, a causa dell’incuria e dell’abbandono in cui versa gran parte del suo patrimonio verde. Era già caduto nel cuore di Villa Borghese (foto in alto, da Repubblica) e altrove, per mancanza o carenza di manutenzione. E bisogna correre subito ai ripari, prima che possa accadere ancora.

“Quell’esemplare – dichiara l’assessora all’Ambiente, Sabrina Alfonsi in un’intervista concessa a Marina de Ghantuz Cubbe per Repubblica Roma – aveva superato a settembre le verifiche visive e non presentava segni preoccupanti tanto che non era stata richiesta un’indagine immediata”. Ma, evidentemente, questo non è bastato per evitare l’incidente. E lei stessa aggiunge: “Ereditiamo una lunga fase di abbandono”, annunciando che il Comune guidato dal sindaco Roberto Gualtieri sta investendo per digitalizzare i controlli e i test di stabilità.

Sopralluogo dei Vigili urbani (da Avvenire)

Secondo la ricostruzione riferita da Valeria Costantini sul Corriere della Sera, “dai rilievi effettuati sull’albero a terra si capisce che le radici sono state tagliate presumibilmente in occasione dei lavoro stradali risalenti a più di dieci anni fa e una parte delle stesse radici risulta completamente secca”. Com’è avvenuto anche a piazza Venezia, davanti al Vittoriano, il monumentale edificio che ospita l’Altare della Patria (nella foto sotto), durante le opere in corso per realizzare la nuova stazione della metropolitana. Da allora, però, nessuno è intervenuto per evitare altre cadute degli alberi-killer. Già un anno fa, in via Donna Olimpia, era morta un’anziana signora in circostanze analoghe.

A Roma, sono stati censiti circa 340mila alberi negli spazi pubblici: finora 150mila sono stati controllati, 120mila sono stati potati. E il Comune ha ricevuto molte critiche per i troppi abbattimenti degli alberi considerati instabili. Ora gli stanziamenti sono saliti da 6 a 30 milioni di euro, avviando un accordo quadro con ditte specializzate e creando una piattaforma con sorta di “cartella clinica” per ogni albero. Nel 2025, quando tutte le piante saranno state registrate, verrà adottato un modello digitale che permetterà di simulare prove di trazione e di verificare immediatamente se l’albero è a rischio o meno.

In concomitanza con i lavori stradali, il Comune di Roma ha rivisto anche il protocollo per il taglio delle radici. E oggi dispone di due strumenti: il primo è il Regolamento del Verde che proviene dall’amministrazione precedente ed entra molto nel dettaglio. Su questa base, è stato predisposto un masterplan delle alberature stradali insieme al CREA, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria che è il principale ente pubblico in questo settore, per definire le dimensioni e la forma delle “buche” nella terra che contengono e circondano gli alberi.

Ora spetterà alla magistratura accertare eventuali colpe e responsabilità penali in questo tragico “omicidio colposo” che ha funestato la vigilia di Natale a Roma. L’inchiesta deve servire, soprattutto, a prevenire ulteriori incidenti a danno dei cittadini e dell’ambiente urbano. La cura degli alberi non può essere considerata un optional nella gestione del verde pubblico che è patrimonio dell’intera collettività.