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Un castello che va in rovina

Da circa 15 anni, sto cercando di recuperare e valorizzare il Castello Lauritano di Agerola, provincia di Napoli, sebbene ostacolato in ogni modo dagli amministratori locali che calpestano le norme del vigente Piano Regolatore. Questo prevede, infatti, interventi di “restauro scientifico e riuso del Castello Lauritano e dell’annessa area di belvedere per la realizzazione di attrezzature para-ricettive e di servizio da svolgersi prevalentemente all’aperto”.

L’articolo 86 della Normativa Tecnica allegata al P.R.G. per le zone A, in cui ricade il Castello , detta le seguenti prescrizioni: “Va perseguita la conservazione e il ripristino dei caratteri di articolazione volumetrica dei fabbricati esistenti”.

Nel Programma di Valorizzazione (redatto ai sensi della legge regionale n. 26 del 18/10/2002 approvato con delibera di Consiglio Comunale n. 25 del 29/09/2003) il Castello Lauritano è incluso tra gli immobili di particolare interesse storico ambientale, per i quali si prevedono “interventi finalizzati al mantenimento dell’integrità materiale del bene e della conservazione e protezione dei suoi valori culturali. È uno dei cinque poli attrattori del Comune di Agerola. Gli interventi di valorizzazione riguarderanno il restauro e la riqualificazione del manufatto al fine di re-istituire il paesaggio storico”.

Alla luce della Normativa Tecnica vigente, appare evidente l’intento ostruzionistico attuato dall’Amministrazione Comunale di Agerola, tramite il responsabile del Servizio urbanistico, per boicottare gli interventi di valorizzazione. In questo modo, si danneggiano non solo i proprietari, ma l’intero paese in quanto il Castello dovrebbe essere un polo di attrazione per l’intero territorio.

Posto sul ciglio di un’alta parete rocciosa, a 700 metri sul livello del mare, il Castello Lauritano sovrasta l’intera costiera Amalfitana, a strapiombo sul Vallone di Santa Croce. Da qui si può godere una visuale piena sul promontorio di Conca dei Marini, sul Convento Santa Rosa (XI secolo) e sulla villa di Sofia Loren. Dal terrazzo del Paradiso, lo sguardo abbraccia l’intero Golfo di Salerno fino ai Monti Alburni e raggiunge il Cilento con Punta Licosa, lasciandosi dietro il Duomo di Amalfi e la Torre dello Ziro; sfiorando Ravello con il Parco e la Torre di Villa Cimbrone, ma anche il Duomo e la Piazza. Il terrazzo è dirimpettaio di Ravello, benché – essendo più in alto – consente una maggiore panoramicità. Questo è uno spettacolo unico al mondo, da non perdere!

Mi limiterò qui a illustrare gli ultimi ostacoli che riguardano il recupero di un portico crollato, indispensabile per la funzionalità dell’intera struttura. Il 20 settembre 2010 i Comitati tecnico-scientifici del Ministero per i Beni e le attività culturali, in seduta congiunta, hanno espresso il seguente parere: “I Comitati ritengono che si possa prendere in considerazione la riproposizione di una parte del portico crollato alcune decine di anni orsono, ma documentata fotograficamente”. Il 5 marzo dell’anno successivo, anche la Soprintendenza di Napoli (ai sensi dell’art. 21 del D.L. 42/04 del Codice dei Beni Culturali), ha espresso parere favorevole “all’intervento di ripristino e al recupero dei volumi crollati al piano terra del Castello Lauritano”. E infine, il 27 marzo 2012 il Responsabile della Tutela Paesaggistica rilasciava l’autorizzazione paesaggistica (Protocollo n. 2453).

Ma in data 25/09/2013 il Responsabile del Servizio Urbanistica, geometra Giovanni Milano, respingeva la richiesta di rilascio del permesso a costruire con la motivazione che “non è accertato, né accertabile tale preesistenza”. Eppure, esistono numerose fotografie, datate e timbrate, che dimostrano la preesistenza del portico. E inoltre i resti ancora presenti “in loco” lo confermano in modo indiscutibile.

Sono stato costretto perciò a ricorrere al TAR di Napoli che purtroppo, ignorando l’articolo 30 del cosiddetto “Decreto del fare”, e pur essendo la documentazione fotografica allegata alla pratica, ha sentenziato che esistono tracce minimali sull’esistenza del portico: motivo per cui non ha concesso la sospensiva. Questa è l’Italia che non riesce a progredire. E intanto la Francia ha il doppio dei turisti!

 Antonio Mascolo (Agerola – Napoli)

 

ALLEGATI (click per visualizzare):

1. Destinazione Urbanistica
2. Foto

 

FOTO:

I MURALES D’ARTE A TOR MARANCIA

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“Il Louvre a Tor Marancia”, così l’ha denominato il quotidiano Il Tempo. Ovvero, “il miracolo di Emanuele”. Nella borgata di Tor Marancia, alla periferia di Roma, è stato inaugurato dal sindaco Ignazio Marino “Big City Life”, il più importante progetto di riqualificazione urbana, sociale e culturale realizzato in Italia attraverso l’arte pubblica. Curato da Francesca Mezzano e da Stefano Antonelli, il progetto di questo straordinario “museo all’aperto” è stato sostenuto economicamente dal mecenatismo della Fondazione Roma, di cui è presidente Emmanuele Emanuele.

Si chiama, più comunemente, “Street Art”. E in effetti, è proprio un’arte da strada quella che ha cambiato il volto di questo quartiere popolare degradato, rivestendo le facciate delle palazzine che compongono lo storico “Lotto 1” di Tor Marancia, con “murales” variopinti (come si può vedere nelle foto pubblicate da Il Messaggero). Sono venti opere monumentali, realizzate dai più importanti artisti internazionali provenienti da 11 Paesi, con il coinvolgimento di oltre 500 famiglie residenti nel comprensorio e oltre 1200 studenti delle scuole della borgata.

“Sono felice di aver potuto replicare in un’altra area della nostra città – ha dichiarato il professor Emanuele – l’esperimento “Samba” da me fortemente voluto al quartiere San Basilio. Riqualificare e illuminare di colori le aree limitrofe della città (non mi piace definirle periferie) è un’idea che perseguo da sempre e che deriva dal mio primo incontro con gli street artists negli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti e in America latina. Il quartiere di Tor Marancia mi è sembrato estremamente interessante per il suo impianto urbanistico e quindi adatto a replicare l’iniziativa”.

Foto Cecilia Fabiano – Toiati

SLIDESHOW FOTOGRAFICO (click per ingrandire)

QUELLE BOTTEGHE IN ESTINZIONE

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Negli ultimi sei anni, il crollo dei consumi prodotto dalla crisi ha cancellato in Italia 94.400 imprese artigiane: da circa un milione e mezzo che erano nel 2009, secondo i calcoli della Cgia di Mestre si sono ridotte a un milione 371mila a fine 2014. Un’ecatombe di botteghe che purtroppo ha portato all’estinzione di una ventina di mestieri. Ma non si tratta soltanto di un fenomeno economico, bensì anche sociale e in un certo senso culturale: non a caso la parola “artigianato” ha la stessa radice di “arte”, perché presuppone una componente manuale d’inventiva, di fantasia e di creatività. A differenza della produzione in serie, infatti, qui ogni pezzo è diverso dall’altro, è sempre un pezzo unico.

Le regioni che in assoluto hanno perso più imprese artigianali sono, nell’ordine, la Lombardia (12mila), l’Emilia Romagna e il Piemonte con circa 10mila ciascuna, il Veneto con novemila e 900. In percentuale, rispetto al totale, i territori più colpiti sono invece la Sardegna (-12,2%), il Molise (-9,7) e l’Abruzzo (-9,4). I settori più penalizzati risultano quello delle costruzioni (-17,4%), dei trasporti (-13,5) e le attività appunto di natura artistica (-11).

La crisi ha messo alle strette in particolare impiantisti, elettricisti, idraulici, manutentori, con oltre 27mila unità in meno. Pesante anche la situazione nell’edilizia (-23.824) e nell’autotrasporto (-13.863). In crescita, invece, le attività di pulizia di edifici e impianti e quelle di giardinaggio: quasi 120mila in più. Un andamento positivo registra anche il settore alimentare (rosticcerie, friggitorie, pasticcerie, gelaterie).

Resta difficile la situazione dell’artigianato: con 10.633 chiusure, le officine fabbrili sono state le più colpite. A queste si aggiungono le falegnameria (-6.757 imprese), il tessile, l’abbigliamento e le calzature con 5.400 unità. Oltre il 54% della contrazione, insomma, riguarda la casa.

Al di là della dimensione economica, il fenomeno coinvolge la tradizione degli antichi mestieri e anche l’aspetto urbanistico delle botteghe artigiane, collocate per lo più nei centri storici delle nostre città, in particolare quelle d’arte: da Roma a Firenze e Venezia, da Nord a Sud. E spesso si tratta di negozi che hanno anche un pregio particolare dal punto di vista estetico, dell’arredo o dell’allestimento.

A Roma, nella suggestiva cornice della Biblioteca Angelica in piazza Sant’Agostino, è stato presentato nel novembre scorso un interessante progetto “per il recupero delle tradizioni artigiane e delle botteghe storiche”, proposto dall’Associazione culturale “Iter” con il sostegno della Fondazione Terzo Pilastro. Non si punta qui a ripristinare o custodire tanti “piccoli musei” dell’artigianato, magari con l’intervento di sponsor o tutor privati, quanto piuttosto a salvaguardare una tradizione e una cultura del lavoro che ormai sono purtroppo in via di estinzione. Tant’è valida l’iniziativa che alla fine i promotori sono riusciti a coinvolgere in qualche modo anche il Campidoglio.

 A Foggia, invece, il progetto “Antichi Mestieri” – varato dall’assessorato comunale alle Politiche giovanili – è risultato un flop. Era rivolto in particolare ai disoccupati e a chi è in cerca di prima occupazione, con 15 ambiti individuati per i programmi formativi: dalle composizioni floreali alla panificazione, dall’arte del restauro alla falegnameria; dalla bigiotteria all’oreficeria. Ma finora la risposta è stata molto al di sotto delle aspettative.


UN eco-mostro fatto di marmo

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Sul litorale di Savelletri (Brindisi), fra gli scavi di Egnatia e il sito rupestre di Lama d’Antico, c’è ancora un vecchio stabilimento per la lavorazione del marmo, ormai dismesso e abbandonato. Un ponte con la gru arrugginita, lastre di pietra accatastate, un pontile pericolante per il carico e lo scarico. È un piccolo eco-mostro del passato che deturpa l’ambiente e il paesaggio: tanto più mostruoso perché quella è diventata una zona turistica di pregio, circondata da numerose antiche masserie trasformate in confortevoli alberghi e vicina al rinomato campo da golf di San Domenico.
Nella stagione estiva, la scogliera intorno alla marmeria viene invasa da gruppi di bagnanti che parcheggiano selvaggiamente le loro automobili e i loro camper a pochi metri dal mare. Un assalto che diventa addirittura barbarico durante il week-end. A fine giornata, si può facilmente immaginare che cosa rimane su questo campo di battaglia: rifiuti di ogni genere, avanzi di cibo, buste e bottiglie di plastica, lattine.
A quanto si dice, un grosso operatore turistico della zona avrebbe acquistato il vecchio impianto per la produzione del marmo, presentando un progetto di riqualificazione del territorio circostante. Vorrebbe demolirlo a sue spese per trasformarlo in uno stabilimento balneare, con una spiaggia pubblica e un parcheggio nella zona più interna: in cambio avrebbe chiesto “compensazioni” edilizie, per trasferire quella volumetria che ora deturpa la costa e il paesaggio in un’area più distante dal mare.
Ma sembra che finora il Comune di Fasano e la Regione si siano opposti al progetto, in nome della tutela ambientale. Naturalmente, le amministrazioni locali non hanno le risorse per realizzare in proprio un’operazione di bonifica, rimuovendo quello scempio e “liberando” il tratto di costa. E così, nell’imminenza della prossima stagione estiva, l’eco-mostro resta in piedi protetto dalle regole ferree della burocrazia, con grave danno per il turismo di tutta la zona.


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MATERA, VANDALI SFREGIANO I SASSI

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“L’amore rende ciechi. Ma a volte anche stolti, a giudicare da quanto si legge sui muri nei Sassi. Sono di innamorati romantici quanto incivili le scritte con vernice spray che hanno deturpato alcuni angoli degli antichi rioni di tufo, patrimonio mondiale dell’umanità”. Ne ha dato notizia La Gazzetta del Mezzogiorno, in una corrispondenza giustamente indignata di Emilio Oliva da Matera. “Quattro le zone del Caveoso – si legge ancora nel testo – dove grafomani in preda a deliri letterari hanno lasciato traccia dei loro sentimenti, ma anche della loro stupidità. Esibizionismo elevato al grado di follia!”.

Non si può che essere d’accordo con l’autore dell’articolo, stigmatizzando l’incultura e diciamo pure l’inciviltà di questi “graffittari” in calore. Un conto sono i “writers” che abbelliscono con i loro murales artistici le nostre periferie degradate; un altro conto sono i vandali che imbrattano i muri delle nostre città: spesso anche le facciate di modesti e dignitosi condomini appena ridipinte a spese dei proprietari o inquilini. Questi sono i nemici giurati del decoro urbano, armati di pennello e bombolette spray.

Ma quando la grafomania arriva ad accanirsi sui muri dei Sassi di Matera, dichiarata Capitale europea della Cultura per il 2019, allora siamo allo sfregio, all’oltraggio, alla barbarie. Bisognerebbe cercare d’individuare e di punire questi irresponsabili che così danneggiano un’intera città, la sua storia e il suo futuro. Ancor prima, però, sarebbe opportuno rafforzare la sorveglianza e la prevenzione, da parte dei vigili urbani  e magari delle associazioni di volontariato, contro questo genere di attentati a un patrimonio che appartiene alla collettività.


Bella Italia, amate sponde

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Apriamo questo nuovo sito con la storica e suggestiva fotografia che l’astronauta italiana, Samantha Cristoforetti, ha scattato dallo spazio durante la missione Futura, offrendoci un’immagine tanto reale quanto inedita della nostra Penisola. Una donna che è diventata un “simbolo di eccellenza” per il nostro Paese, come ha detto l’ex presidente Giorgio Napolitano, nel suo ultimo messaggio di Capodanno.

L’abbiamo chiamato “Amate sponde”, questo sito, riprendendo un verso dalla famosa poesia di Vincenzo Monti, intitolata Per la liberazione dell’Italia: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder!/ Trema in petto e si confonde/ l’alma oppressa dal piacer”. Ed è stata per noi una coincidenza tanto più gratificante che il nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, declinando i diritti costituzionali nel suo discorso d’insediamento, abbia voluto ricordare fra l’altro che “garantire la Costituzione significa amare i nostri tesori ambientali e artistici”.

La “liberazione dell’Italia”, in questo caso, vuol dire la liberazione da tutti i vincoli, da tutti i “lacci e lacciuoli” – per usare una celebre espressione di Guido Carli – che opprimono il nostro immenso patrimonio storico e culturale. Pareri, permessi, divieti, concessioni, licenze, appelli, ricorsi e controricorsi che quel mostro chiamato burocrazia impone al Belpaese. Una valanga di carta bollata che si riversa su monumenti, palazzi, ville, chiese, conventi, certose e castelli, impedendone spesso il recupero o il restauro.

Non basta conservare e tutelare – come pure è doveroso fare – questo straordinario deposito di Beni comuni che abbiamo ricevuto in eredità attraverso i secoli. Occorre anche valorizzarli. Ciò significa manutenerli, curarli, riportarli al loro stato originario e al loro antico splendore. E magari, riqualificare così il territorio su cui insistono, per “sfruttare” – nel senso migliore del termine – tutte queste risorse, anche al fine di rilanciare il turismo e l’occupazione per combattere la crisi economica che attanaglia il Paese e in particolare le regioni meridionali.

Abbiamo il più alto numero di Beni considerati dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, ma siamo precipitati all’ultimo posto nella graduatoria europea della spesa pubblica per la Cultura: appena l’1,1% contro una media del 2,2 nell’Ue. Troppo spesso, però, la mancanza  di fondi pubblici diventa un alibi o un pretesto per non fare niente, per lasciare tutto come sta, per rinunciare a intervenire e a trovare soluzioni alternative.

“La nostra immensa ricchezza è anche il nostro principale ostacolo alla crescita”, scrive Yoram Gutgled, consigliere economico di Matteo Renzi, nel suo libro “Più uguali, più ricchi” (Rizzoli). E aggiunge: “Un numero quasi illimitato di attrazioni da promuovere rende quasi impossibile riuscire a sostenerle complessivamente e fornire a esse infrastrutture adeguate. Occorrerebbe quindi fissare delle priorità e fare delle scelte ma, come spesso accade nel nostro Paese, prevale l’immobilismo”. E allora, se lo Stato non è in grado di fare fronte a tutte queste necessità e a queste spese, ben vengano i privati: mecenati, enti, banche, fondazioni, che possano integrare le scarse risorse pubbliche e diventare magari “tutor” di un palazzo, di un monumento o di una chiesa.

“Amate sponde” nasce con questo programma, con l’intento di favorire la “liberazione dell’Italia” e di contribuire a valorizzare, cioè dare più valore,  al nostro patrimonio storico, artistico e culturale. Il sito ospiterà perciò “Progetti di riqualificazione del territorio italiano” da qualunque parte provengano: privati cittadini, circoli, associazioni, enti pubblici o studi professionali d’ingegneria e architettura. Sarete soprattutto voi a farlo, insieme a noi, inviandoci segnalazioni e proposte, foto e video, per documentare il degrado o la stato di abbandono dei singoli Beni e partecipare così attivamente al loro recupero.

IL PONTE DEI RECORD SUL FIUME TAGLIAMENTO

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I lavori sono durati poco più di un anno, per l’esattezza 379 giorni. E ora il nuovo viadotto sul Tagliamento, al confine tra Veneto e Friuli, è già diventato “il ponte dei record”: il simbolo di un’Italia che non si arrende e vuole progredire, ma anche un modello di efficienza e di rapidità per la ricostruzione del ponte di Genova, crollato alla vigilia di Ferragosto scorso, provocando la morte di 43 persone.

Il viadotto dell’A4 sul Tagliamento, inaugurato il 9 dicembre scorso, collega i due tratti dell’autostrada al di qua e al di là del fiume. Si tratta di un’arteria cruciale per il traffico fra l’Italia, l’Austria e la Germania verso Nord, attraverso il valico di Tarvisio; e verso il Centro Europa, via Trieste e Gorizia. Un traffico automobilistico di oltre 48 milioni di macchine nel 2018 (+2,6% rispetto all’anno precedente) e di oltre 12 milioni di mezzi pesanti (+6,3%).

Molto più basso del ponte Morandi, il nuovo viadotto corre a circa dieci metri di altezza sull’alveo del fiume, ma è più lungo di quasi mezzo chilometro (1.500 metri contro 1.100). Per realizzarlo, è stato necessario un investimento di 70 milioni di euro, con l’impiego di 70-80 operai. E in vista di un prossimo allargamento dell’A4 a tre corsie, è già in fase di costruzione un altro viadotto parallelo per fare un “miracolo-bis”.

A parte la funzionalità della nuova struttura per il traffico su ruota, il “ponte dei record” ha anche una doppia valenza paesaggistica e turistica. Con una lunghezza di 170 chilometri e un bacino di quasi 3.000 chilometri quadrati, il Tagliamento è il fiume più importante del Friuli-Venezia Giulia ed è l’unico di tutto l’arco alpino e uno dei pochi in Europa a preservare una morfologia a canali intrecciati. Per l’unicità del suo ecosistema, viene chiamato anche “il Re dei fiumi alpini”. La sua sorgente si trova a 1.195 metri di altitudine, nel Comune di Lorenzago di Cadore, nella provincia di Belluno al confine con quella di Udine.

Con il nuovo viadotto, destinato a essere presto raddoppiato, tutta la zona acquisterà anche una maggiore attrattiva per il turismo, sia estivo sia invernale. E così il progetto costituirà un punto di riferimento per la ricostruzione del ponte di Genova, nella speranza che i tempi vengano rispettati e l’opera possa essere completata – come ha promesso il ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli – per il prossimo Capodanno.

FINMECCANICA DIMENTICA LA FONTANA DI MITORAJ

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A caval donato, come dice il proverbio, non si guarda in bocca. Ma qui basta guardare la faccia per rendersi conto del problema. E il caso è sotto gli occhi di tutti.

La “Fontana della Dea Roma”, scolpita da Igor Mitoraj e donata da Finmeccanica al Comune di Roma nel 2003, versa in condizioni pietose nei pressi di ponte Risorgimento, proprio all’inizio di quel viale Mazzini dove ha sede la Rai. Un’opera d’arte abbandonata alle intemperie, sporca di smog, priva di qualsiasi manutenzione.

Eppure, a pochi passi si trova anche l’edificio che in piazza Monte Grappa ospita Finmeccanica, il primo gruppo industriale italiano nel settore dell’alta tecnologia e uno dei più grandi operatori internazionali della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza. Una holding con un fatturato di 14,66 miliardi di euro nel 2014 e un utile netto di 20 milioni. Il suo principale azionista è il ministero dell’Economia e delle Finanze.

Possibile mai che un colosso del genere non abbia i fondi per provvedere all’ordinaria manutenzione della Fontana di Mitoraj? Sarà pure che questa spetterebbe al Comune di Roma. Ma, ai tempi di Mafia Capitale, c’è poco da sperare che il Campidoglio si preoccupi di intervenire. Un gigante come Finmeccanica non dovrebbe trovare troppe difficoltà a offrirsi come tutor o come sponsor, almeno per un primo intervento di ripulitura, anche per tutelare un bene che ha donato a Roma e che ora appartiene a tutti i cittadini.

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NO, 359 VOLTE NO

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Da un capo all’altro della Penisola, dal Piemonte alla Puglia, dalla Tav (la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione) fino al Tap (il gasdotto trans-adriatico), il “partito del NO” paralizza l’Italia, frenando il suo sviluppo e la sua modernizzazione. Sono 359 – secondo l’Osservatorio Nimby Forum per il 2016 – i progetti bloccati dalle associazioni e dai movimenti locali che si oppongono alla realizzazione di queste infrastrutture. Un fronte variegato che, in nome dell’ambiente e della natura, assedia i cantieri, presenta ricorsi al Tar, alle Regioni e ai Comuni, per impedire l’inizio o il completamento delle opere di pubblica utilità.

Si chiama appunto “Nimby” – com’è noto – l’effetto di chi impugna come una bandiera questo acronimo inglese: “Not in my back yard”, non nel mio cortile o nel mio giardino. Ora è vero che, prima delle cosiddette “grandi opere”, bisognerebbe fare le piccole opere che servono per la salvaguardia del territorio: dall’ordinaria manutenzione alla tutela dell’assetto idrogeologico, in particolare lungo le coste e i letti dei fiumi, contro la speculazione e la cementificazione selvaggia. Ma non per questo si può “ingessare” un Paese che, soprattutto al Sud, ha bisogno di nuove infrastrutture per crescere.

Dal 2015 all’anno scorso, invece, i contenziosi sono aumentati del 5%. Su questi 359 progetti bloccati, il 56,7% riguarda il comparto energetico e il 37,4% quello dei rifiuti. I motivi vanno dalle preoccupazioni per l’ambiente o il paesaggio e dalle paure per la salute (il 30,1%) fino all’amore per il proprio Paese e alla richieste dei cittadini di essere più coinvolti nei processi decisionali.

Fra gli impianti energetici, i più avversati sono le centrali elettriche a biomasse che usano come combustibile legna o vegetali (43 impianti) e le centrali eoliche (13 progetti). Per quanto riguarda le fonti di energia convenzionale, le contestazioni si concentrano soprattutto sulle ricerche di giacimenti di metano o di petrolio oppure sullo scavo dei pozzi. Un caso di risonanza internazionale è diventato quello del Tap, il gasdotto che dall’Azerbaigian approderà sulla costa pugliese, avallato dall’Unione europea perché d’interesse continentale: in Salento, il cantiere è ormai circondato dal filo spinato e presidiato dalle forze dell’ordine.

Nel settore dei rifiuti, mentre tutti invocano a parole la cosiddetta “green economy”, nei fatti poi scattano le opposizioni a livello locale per motivi ambientali o sanitari. No agli impianti per il riciclo, no all’uso dei rifiuti per produrre energia (37 casi), no alla discariche (30), no agli impianti di compostaggio per produrre concime dai rifiuti organici (20). Eppure, potrebbero essere una risorsa proprio per contribuire a promuovere l’economia verde.

MALPAESE, EMERGENZA CONTINUA

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Con sette milioni di cittadini e il 91% dei Comuni a rischio idrogeologico, il Malpaese è l’ultimo che può meravigliarsi per le vittime, i danni e le conseguenze devastanti provocati dalla recente ondata di maltempo che ha investito l’Italia. Dal Veneto alla Sicilia, dal Nord-Est al Sud fino alle Isole, è un’emergenza continua che dura ormai da molti anni. Una situazione cronica che minaccia l’intera Penisola e i suoi abitanti, la loro sicurezza e purtroppo la loro stessa sopravvivenza.

Nessuno parli, però, di “calamità naturali” o di “fatalità”. Certo, le precipitazioni atmosferiche degli ultimi giorni sono state eccezionali. Ma è l’effetto combinato del dissesto e dell’oltraggio all’ambiente, entrambi prodotti dalla mano dell’uomo, a determinare l’entità di questi disastri. Da una parte, l’assalto al territorio, a colpi di consumo del suolo, speculazioni edilizie, scempi e abusi, che nel corso del tempo ha reso l’Italia fragile e vulnerabile; dall’altra, l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento del pianeta, a livello globale, che hanno amplificato a dismisura la gravità dei fenomeni naturali.

Pro quota, ne siamo tutti responsabili, chi più chi meno. A cominciare dai governanti e dagli amministratori locali che prima non hanno impedito questa manomissione ambientale, lasciando costruire case o palazzi abusivi e poi non li hanno demoliti, com’è avvenuto purtroppo per la fatale villetta di Casteldaccia in cui la furia dell’acqua ha sterminato un’intera famiglia di nove persone. Ma anche noi cittadini, ciascuno di noi, abbiamo le nostre colpe per uno “stile di vita” fatto di cattive abitudini, di indifferenza o incuria nei confronti dell’ambiente: fabbriche, auto e impianti di riscaldamento che avvelenano l’aria; consumi energetici dissennati e irresponsabili che “bucano” l’ozono, provocando l’effetto serra e il progressivo riscaldamento del pianeta; distruzione sistematica delle risorse prodigate da madre natura.

Ci sarà pure chi coltiva un “ambientalismo da salotto”, come dice sprezzantemente Matteo Salvini, vicepremier leghista di un governo che ha appena varato un condono edilizio per le case abusive di Ischia, collegio elettorale del vicepremier pentastellato Luigi Di Maio. Per non parlare qui delle altre sanatorie varate in passato da quel centrodestra di cui la stessa Lega era parte integrante. Ma l’ambientalismo, da salotto o da cucina, è l’unico antidoto contro l’incultura diffusa che giustifica e alimenta tali comportamenti. Non a caso chi scrive ha sempre parlato di “ambientalismo sostenibile”, cioè compatibile con le ragioni dello sviluppo e del benessere; un ambientalismo con i piedi per terra; costruttivo e praticabile. Soltanto una maggiore coscienza e consapevolezza dei rischi che corriamo potranno indurci a cambiare un modello economico-sociale che altrimenti porterà fatalmente il genere umano all’apocalisse e all’autodistruzione.

Sì, qualcuno potrà anche dire o pensare: non mi riguarda, se la vedrà chi verrà dopo di me, non vivrò tanto a lungo…e così via. Eppure, senza assumere qui toni predicatori, consiste proprio in questo l’esercizio di responsabilità a cui siamo chiamati: tutelare l’ambiente e salvaguardare la natura per noi stessi, ma soprattutto per i nostri figli e per i nostri nipoti. Difendere la Terra per difendere la vita, quella nostra e quella altrui.

Dissesto e inquinamento, dunque, come primo binomio dell’emergenza ambientale. Poi, prevenzione e manutenzione, come strumenti contro il degrado e la rovina del territorio. E infine, lotta all’abusivismo e demolizioni, per impedire o curare le ferite provocate dall’ingordigia e dalla rapacità dell’uomo. È su questi binari che deve procedere il nostro impegno collettivo, in modo da recuperare il più possibile l’equilibrio naturale.

Ponti che crollano, alberi che crollano, scale mobili che crollano…Ma in che Paese viviamo?! Occorre un grande Piano nazionale di tutela ambientale, con una vigilanza continua e una mobilitazione generale, regione per regione, città per città, Comune per Comune. Un’opera quotidiana, insomma, di prevenzione e di ordinaria manutenzione, per contenere e possibilmente ridurre l’avanzata del cemento; tutelare le coste; salvaguardare la campagna e la montagna; ripristinare il corso dei fiumi e dei torrenti.

Viene in mente, a questo proposito, il reddito di cittadinanza. Sappiamo bene che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire alla riqualificazione professionale e al reinserimento nel mondo del lavoro. Ma, in attesa che la produzione e l’occupazione ripartano, non sarebbe opportuno intanto utilizzare una parte di questi beneficiari per rafforzare la Protezione civile, affiancando la professionalità degli addetti e la generosità dei volontari? Per istituire un esercito di “operatori ambientali”, coinvolgendo anche gli immigrati senza lavoro e senza dimora? Per curare gli alberi, manutenere parchi e giardini pubblici?

Una volta eravamo il Belpaese. Dobbiamo proprio arrenderci e rassegnarci oggi a essere il Malpaese? Ne va della nostra identità, della nostra tradizione e della nostra immagine agli occhi del mondo. E ne va, purtroppo, anche del turismo che è pur sempre la prima industria nazionale.

Giovanni Valentini

(articolo pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno” e su “La Sicilia il 7 novembre 2018)

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