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IMMIGRAZIONE, PREMIO ALLA MARINA MILITARE

È stata attribuita quest’anno alla Marina militare italiana la Targa d’argento della Fondazione “Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo”, per il suo “essenziale contributo dato per il salvataggio in mare di migranti”. Nel corso della settima Giornata su “Immigrazione e cittadinanza”, organizzata insieme all’Associazione “Investire in Cultura”, il presidente Emmanuele Emanuele ha consegnato il premio al Capo di Stato Maggiore della Marina, Ammiraglio Giuseppe De Giorgi, che ha illustrato l’attività di soccorso e assistenza svolta dai reparti a bordo delle nostre navi militari.

«Da uomo mediterraneo, ispano-siciliano, abituato da sempre a una società multietnica, ho una propensione empatica nei confronti degli emigranti”, spiega il professor  Emanuele: “E’ per questo motivo che la Fondazione che presiedo opera costantemente per aiutare i popoli del Mediterraneo nei loro Paesi; per creare le condizioni affinché nessuno debba più fuggire da un destino senza speranza, in un esodo verso l’Occidente e l’Europa che nessun muro potrà mai fermare. Fenomeno ben noto a noi italiani, che ha caratterizzato quasi cinquant’anni di storia patria, fatta di emigrazione massiccia verso le Americhe e l’Australia. Questa è l’unica strada per far cessare la tragedia dei barconi, dei lager dove teniamo di fatto prigionieri questi profughi, con la disumanità di un contrasto all’immigrazione che ci lascia sulla coscienza migliaia di morti, nonostante il prezioso e nobile operato della nostra Marina”.

È dal 2009 che la Fondazione “Terzo Pilastro” assegna questo riconoscimento ad associazioni ed enti che si sono particolarmente distinti per il loro impegno a favore di chi approda sulle sponde italiane, o arriva via terra nella nostra Penisola, da migrante o da rifugiato. Nel corso della settima Giornata su “Immigrazione e Cittadinanza”, docenti ed esperti si confronteranno per suggerire alle istituzionali nazionali nuove strategie su quest’argomento.

Argomento divenuto di stretta attualità, specialmente negli ultimi anni, il tema immigrazione è largamente dibattuto soprattutto per quanto riguarda la prima accoglienza e i tanti problemi che nascono dalle difficoltà d’inserimento nel mondo del lavoro. Purtroppo, la grande attenzione rivolta a questa drammatica realtà mette in secondo piano un argomento non meno importante che riguarda le future generazioni: e cioè il processo d’integrazione dei figli degli immigrati nati in Italia. Nel nostro Paese, com’è noto, esiste una forte spinta culturale e politica che tende a facilitare la concessione della cittadinanza, ma l’integrazione per trasformare questi giovani da ospiti in cittadini  dipende fortemente dai rapporti interculturali e in particolare dall’azione fondamentale della scuola, nonché dall’apprendimento essenziale da parte degli immigrati delle nostre leggi e della nostra Costituzione.

Su iniziativa della stessa Fondazione “Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo”, il 16 aprile s’inaugurerà a Palermo (Teatro Politeama , Sala gialla – ore 18) una mostra storica e fotografica sull’immigrazione italiana nelle Americhe, intitolata “Partono i Bastimenti” e curata da Francesco Nicotra, direttore dei progetti speciali NIAF (National Italian American Foundation) che ha dato il suo patrocinio a questa esposizione in Sicilia. La rassegna, a cui prossimamente “Amate Sponde” dedicherà uno specifico approfondimento, è stata già allestita con successo a Napoli, a Cosenza, a Bari e in edizione ridotta presso il Ministero degli Affari esteri a Roma.


 


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CERTOSA DI TRISULTI, PETIZIONE AL PAPA

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S’è piazzata al 32° posto, nella graduatoria nazionale dei “Luoghi del cuore” compilata dai sostenitori del FAI (Fondo ambiente italiano), la Certosa di Trisulti, seconda nel Lazio e prima nella provincia di Frosinone. L’antico convento di Collepardo ha ottenuto 10.430 voti su un totale di oltre un milione e 600mila, distribuiti tra oltre 20mila luoghi segnalati. L’associazione ambientalista, per bocca del suo vive-presidente esecutivo Marco Magnifico, s’è impegnata a stanziare fondi speciali per il restauro architettonico. Anche il Ministero dei Beni culturali e la Regione Lazio sembrano intenzionati a erogare finanziamenti per l’intervento più urgente di risanamento dei tetti.

Ma adesso una nuova minaccia incombe sulla Certosa: l’allontanamento dei monaci ultrasettantenni che ancora la abitano, ai quali sono affidate la custodia e la manutenzione. Da cinque che erano, per ragioni di età o di salute, oggi si sono ridotti a due. Assistititi da Roberto, il fedele factotum del convento, sono loro anche ad accogliere i visitatori e i turisti. E perciò un gruppo di “Amici della Certosa” ha deciso di lanciare una petizione online a Papa Francesco, sul sito di change.org, per mantenere una comunità monastica a Trisulti.

“La caratteristica principale di Trisulti – scrivono fra l’altro i promotori – è quella di essere un’oasi dove si incontra Dio attraverso la comunione spirituale con la natura e il senso profondo della solidarietà. Ora questa importante realtà, monumento nazionale dello Stato italiano dal  1879, attualmente affidato ai monaci cistercensi, ridotti ormai in numero esiguo e molto anziani, corre il rischio della chiusura proprio perché i monaci verranno richiamati, a causa dell’età e delle condizioni di salute, in un’altra Abbazia. Per questo Le chiediamo, Santità, di INTERVENIRE PER MANTENERE A TRISULTI UNA COMUNITA’ MONASTICA, di qualunque ordine, maschile o femminile, perché possa continuare ad essere il faro di spiritualità e cristianità che è sempre stata”. La petizione si può firmare a questo indirizzo.

Costruito nel 1202 per volere di papa Innocenzo III, nei pressi di una precedente abbazia benedettina, il monastero è passato nel corso dei secoli dai Certosini alla Congregazione dei Cistercensi. Monumento nazionale dal 1873, nonostante gli interventi di ristrutturazione e di restauro realizzati fino a una decina di anni fa, oggi questo straordinario complesso medioevale rischia di essere scoperchiato e di rimanere a cielo aperto.

A prima vista, incastonata nella fitta vegetazione dei Monti Ernici a 825 metri di altitudine, la Certosa appare in tutta la sua imponenza mistica e solitaria. E in realtà, con una superficie complessiva di circa 15mila metri quadri coperti, appare più un borgo che un convento. Ma è all’interno degli edifici che si possono vedere in diversi punti i tetti pericolanti, in parte già caduti sotto il peso della neve, sostenuti a malapena da assi e cavalletti: negli anni Settanta, i vecchi coppi di terracotta furono sostituiti da tegole meno resistenti e il ghiaccio le ha spaccate fino a provocare numerose infiltrazioni. Se non s’interverrà rapidamente, i crolli potrebbero ripercuotersi sui solai dei piani inferiori, causando danni ancora più gravi.

All’epoca del suo fulgore, la Certosa ospitava una piccola comunità di più di cento persone, tra preti, novizi e artigiani. Tant’è che, oltre alla chiesa barocca dedicata a San Bartolomeo (con gli affreschi danneggiati dall’umidità) e alla Foresteria in stile romanico-gotico, entro le antiche mura del complesso si trovano anche una Biblioteca con 36mila volumi e una splendida Farmacia del XVIII secolo, decorata con “trompe-l’oeil” realistici d’ispirazione pompeiana e arredata con mobili del Settecento: negli scaffali sono esposti ancora i vasi in cui venivano conservate le erbe medicinali e i veleni estratti dai serpenti per preparare gli antidoti. La volta a crociera della sala principale è stata affrescata da Giacomo Manco, mentre il delizioso salottino d’attesa è impreziosito dai dipinti dell’artista napoletano Filippo Balbi. Un gioiello di farmacia antica che meriterebbe magari il patrocinio di un tutor.

Ha scritto su “Repubblica” Giovanni Valentini: “Borgo, convento, seminario, scuola pubblica, méta di pellegrinaggio o di turismo alternativo, nella sua lunga storia la Certosa di Trisulti è sempre stata un centro di vita e di attività. La sua originaria vocazione culturale meriterebbe di essere ripristinata e coltivata, magari attraverso un programma di incontri, convegni, eventi, manifestazioni in grado di richiamare un pubblico interessato ai temi della spiritualità, dell’arte, della salute, dell’omeopatia o dell’erboristeria. E le sue strutture ricettive, dalla Foresteria alle vecchie celle dei seminaristi, andrebbero opportunamente riadattate per accogliere ospiti da tutto il mondo in cerca di silenzio, serenità e raccoglimento; oppure, gli appassionati di trekking, a piedi o a cavallo, e di mountain bike”.

Occorrerebbe, dunque, un progetto organico di conservazione e valorizzazione, per rivitalizzare questo splendido eremo, ad appena cento chilometri a sud di Roma, anche a costo di farne un centro di studi e convegni o perfino un relais. Altrimenti, la Certosa di Trisulti è condannata al degrado e all’oblio. E un altro pezzo della nostra storia e della nostra memoria collettiva sarebbe cancellato per sempre.

UNO SPIRAGLIO PER LA CASINA DELL’AURORA

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S’è aperto uno spiraglio nell’annosa vicenda, rivelata l’anno scorso dal quotidiano “la Repubblica” e ripresa dal Tg Uno, che mette in pericolo la preziosa Casina dell’Aurora, a due passi da via Veneto, nel cuore di Roma. Pur accogliendo il ricorso del Ministero dei Beni culturali contro la precedente pronuncia del Tar del Lazio, favorevole alla realizzazione di un parcheggio sotterraneo per finanziare le spese di ristrutturazione, una recente sentenza del Consiglio di Stato auspica tuttavia una “fattiva collaborazione tra pubblico e privato” per cercare una soluzione praticabile. Tanto che dopo un sopralluogo il Soprintendente ad interim, Agostino Bureca, ha chiesto al proprietario della storica villa alcune “integrazioni” al progetto originario, in modo da assicurare da una parte “gli introiti necessari per il restauro del parco e della villa” e garantire dall’altra “il mantenimento nel tempo delle ottimali condizioni di conservazione e di valorizzazione culturale”.

Costruita nel Seicento per volere del cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV; ampliata a metà dell’Ottocento; minacciata dai cedimenti delle fondazioni, dalle crepe nelle pareti e dalle sconnessioni del pavimento, la Casina dell’Aurora ha bisogno di una ristrutturazione urgente e di un restauro conservativo. Altrimenti, rischia di andare in rovina con gli affreschi dipinti dal Guercino nella volta dell’ingresso, da cui prende nome questa splendida villa considerata un monumento storico-culturale di valenza nazionale: al suo interno, si trova anche l’unico dipinto murale del Caravaggio. Un gioiello nascosto e dimenticato, dunque, che bisogna assolutamente salvare dal degrado.

Articolata su quattro piani, di cui uno interrato, la villa una superficie coperta di complessivi 2.720 metri quadri ed è circondata da un giardino storico di quasi seimila. Per ristrutturarla e restaurarla, occorrerebbero almeno 6-7 milioni di euro. Ma il principe Nicolò Boncompagni Ludovisi, proprietario e usufruttuario della villa, ha già speso di tasca propria circa un milione per i lavori più urgenti e ora, fedele alla migliore tradizione dell’aristocrazia, non dispone dei mezzi necessari per finanziare ulteriori interventi. Né lo Stato è in grado di erogare contributi pubblici.

Le risorse potrebbero essere ricavate dalla costruzione di un parcheggio a circa dieci metri di profondità, al di sotto del sedime archeologico, come quello pubblico che si trova all’inizio della vicina via Ludovisi. Nel progetto esecutivo, già ridimensionato rispetto a quello originario in base alle osservazioni della Soprintendenza, è prevista una superficie di 2.800 metri quadri per ciascuno dei tre piani programmati, da scavare in corrispondenza di una porzione del giardino a distanza di sicurezza dalle fondamenta della villa. Ma sono tre lustri ormai che la vicenda si trascina nei meandri della burocrazia, tra pareri negativi, ricorsi e annullamenti.

Adesso la salomonica sentenza del Consiglio di Stato, all’insegna di un certo “cerchiobottismo”, dà ragione al Ministero ma non dà torto al proprietario. E dice, in buona sostanza: nessuno di voi ha i mezzi necessari per provvedere; mettetevi d’accordo e trovate una soluzione; fate un parcheggio “sostenibile” che consenta di restaurare la Casina dell’Aurora, senza compromettere il valore storico e monumentale della villa. C’è solo da auspicare ora che la Soprintendenza rispetti la sentenza, in nome della legge e della ragionevolezza.

 

ALLEGATI (click per visualizzare):

1. LA STORIA
2. BONCOMPAGNI sentenza Consiglio di Stato
3. Aurora Documento 3

 

FOTO:

PARCO EOLICO O SFREGIO AL PAESAGGIO?

Si discuterà il 13 maggio davanti al Tar del Lazio, competente per le controversie sugli atti di organi centrali dello Stato e di enti pubblici ultraregionali, il caso del parco eolico offshore che dovrebbe essere installato nel Golfo di Gela, sulla costa sud-occidentale della Sicilia, al largo del Comune di Butera (come raffigurato nel rendering qui sopra). L’Associazione Archeoclub d’Italia e un gruppo di cittadini, rappresentati dagli avvocati Chiara Donà delle Rose e Giovanni Puntarello, chiedono l’annullamento del parere favorevole all’esclusione della procedura di VIA con cui la Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale aveva autorizzato il progetto, nel dicembre 2013, suscitando le reazioni del fronte ecologista: si tratta di 38 mastodontiche “pale” per catturare l’energia del vento a circa due miglia dal litorale. Sarebbe un attentato al turismo di tutta la zona, oltre che al paesaggio, all’avifauna e all’inestimabile patrimonio storico ancora sommerso in quelle acque.

Presentato dalla società Mediterranean Wind Offshore di La Spezia, il progetto fu approvato dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2003 e ha ottenuto anche il giudizio positivo del ministero dell’Ambiente. Ma fin dall’inizio è stato avversato dal ministero dei Beni culturali, dalla Regione Sicilia, dalla Provincia di Caltanisetta e dai Comuni di Gela, Licata e Butera. Per dirimere la controversia, nel 2012 è intervenuto il Consiglio dei ministri avvalorando la “compatibilità ambientale” dell’opera.

Non è, però, una “guerra contro i mulini a vento” quella che infuria nel Golfo di Gela. I ricorrenti non sono contrari a una fonte “pulita” come l’energia eolica, ma contestano piuttosto la “location” di questo parco offshore che dovrebbe occupare un’area di 9,5 chilometri quadrati e produrre a regime 136,8 megawatt. E l’opposizione del fronte “No Peos” (No al Parco eolico offshore), guidato dal Comitato per la difesa del Golfo, si fonda su diverse buone ragioni.

La zona interessata ha, innanzitutto, una “forte vocazione balneare e turistica” e comprende un “tratto di costa ancora incontaminato e vergine”, come si legge nel parere contrario della Provincia di Caltanisetta che sostiene l’assoluta incompatibilità ambientale del progetto. E su tutta l’area circostante sono già in funzione numerose strutture turistiche, ricettive e alberghiere, che ne riceverebbero “danni gravi e irreparabili”.

Sono poi le dimensioni degli aerogeneratori, seppure ridotti di numero dagli originari 113 a 38, a prefigurare già uno sfregio al paesaggio. Alti 135 metri, di cui 80 emersi al di sopra della superficie del mare, equivalgono ad altrettanti grattacieli come il Pirellone di Milano (127 metri), con una base di sei metri e un diametro massimo del rotore pari a 110 metri.

Il parco eolico offshore, inoltre, sorgerebbe proprio di fronte allo storico castello di Falconara, affacciato sul mare, ultima fortificazione della costa meridionale della Sicilia. Qui davanti, lungo la più importante via di commercio e di scambio tra le città greche di Gela e di Finziade (l’odierna Licata), si svolsero molte battaglie navali dal IV secolo a.C. fino allo sbarco degli alleati nella seconda Guerra mondiale.

È per questi motivi che “l’area interessata – come sottolinea il ricorso delle associazioni al Tar,  invocando anche la tutela dei Beni culturali – riveste uno straordinario interesse archeologico”, suffragato dai numerosi recenti ritrovamenti. Ma, secondo gli esperti, con ogni probabilità i fondali custodiscono un ricco giacimento di reperti delle battaglie navali, un deposito nascosto sotto la sabbia ancora tutto da scoprire.

C’è, infine, la protezione dell’avifauna. Questo è, infatti, uno dei principali canali di migrazione degli uccelli acquatici tra l’Africa e l’Europa. E a parte l’impatto visivo, l’installazione di quelle 38 pale è di per sé una minaccia per la sopravvivenza dei volatili e per la tutela della biodiversità.


CABINE TELEFONICHE IL DEGRADO IN LINEA

In Giappone, sono state trasformate in acquari stradali pieni di pesci rossi, simbolo di felicità e prosperità. A New York, l’architetto John Locke ha proposto per  primo di adattarle a mini-biblioteche per il book-crossing, lo scambio di libri usati. E l’idea è stata attuata anche in diverse città italiane, mentre a Roma sono diventate perfino serre urbane.

Superate dalla diffusione dei più moderni cellulari, le vecchie cabine telefoniche sono dovunque in disuso e spesso in stato di degrado. Un totem del passato, il residuo di un’altra epoca. Ma la “rottamazione” o il recupero, nonostante l’intervento dell’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni) che già nel 2010 ne aveva disposto lo smaltimento al ritmo di 30mila all’anno, procedono ancora a rilento.

Quelle vecchie cabine abbandonate costituiscono ormai uno sfregio al decoro delle nostre città. E spesso, diventano addirittura un rifugio precario per poveri sbandati e drogati. Chi ha chiesto e ottenuto a suo tempo l’autorizzazione a installarle, occupando una porzione di suolo pubblico, avrebbe ora il dovere di rimuoverle. O quantomeno, di trasformarle – appunto – in strutture utili alla collettività.

Sarà pure giusto, come ha deciso l’Agcom, che vengano mantenute per ogni evenienza nei “punti di rilevanza sociale”: ospedali, carceri, scuole, stazioni. Ma, a parte il fatto che occorrerebbero sempre i vecchi gettoni per utilizzare quei telefoni, manca l’ordinaria manutenzione tecnica: gli stessi apparecchi sono spesso divelti, le porte e i vetri rotti, le pareti interne imbrattate di scritte, le cabine ingombre di rifiuti o di sporcizia.

Questo è un altro “caso aperto” che richiederebbe un progetto nazionale di riqualificazione del territorio. Sono innanzitutto i Comuni, grandi e piccoli, che dovrebbero  farsene carico per organizzare un piano da concordare magari con le compagnie telefoniche a cui quegli impianti tuttora appartengono. Nel degrado generale delle nostre città, può sembrare forse un dettaglio, ma la rimozione delle cabine rappresenta invece un test per misurare la capacità di gestione delle amministrazioni locali. In fondo, si tratta soltanto di assicurare l’ordinaria manutenzione.

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IL PARADISO NASCOSTO ALL’OMBRA DI SAN PIETRO

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È un’area verde di oltre otto ettari nel cuore di Roma, fra la via Aurelia Antica e via Gregorio VII, a circa ottocento metri in linea d’aria dalla Basilica di San Pietro. Dal pianoro più alto, la mole del Cupolone appare così vicina da dare quasi l’impressione di poterla toccare. Ma, pur avendo uno straordinario valore paesaggistico, questo piccolo paradiso nascosto è stato utilizzato per decenni come una discarica e finora i cittadini del quartiere non hanno mai potuto frequentarlo. Nonostante la sua inclusione nel tessuto urbano, proprio a ridosso del Vaticano, è circondato da uno “sfasciacarrozze” con un deposito di auto a cielo aperto e da uno “smorzo”, un cantiere dove si commercia materiale edile.

Sebbene sia stata abbandonata al degrado per tanto tempo, ospitando anche un maneggio abusivo che è stato poi trasferito per motivi di igiene pubblica, l’area conserva tuttora un carattere prettamente agricolo-forestale. Ma al suo interno si trovano anche le tracce di una precedente attività industriale ed estrattiva, per la presenza di una cava d’argilla dismessa e dell’adiacente Fornace di San Bruno, ormai quasi completamente distrutta, fatta salva una parte della ciminiera.

Da quattro anni a questa parte, il “paradiso nascosto” è diventato però un inferno di carta bollata. Nel luglio del 2010, la costituenda società “Borgo Piccolomini srl”, promossa dal regista Alberto Manni e da un gruppo eterogeno di professionisti, ha vinto un bando di gara a evidenza pubblica per la locazione di cinque ettari di terreno e di un fabbricato fatiscente, adibito negli ultimi tempi a stalla per i cavalli, di proprietà della Fondazione Nicolò Piccolomini per l’Accademia d’Arte drammatica, una iPab (istituzione pubblica di assistenza e beneficenza) controllata dalla Regione Lazio. E successivamente, alla stessa società sono stati locali gli altri tre ettari.

Il progetto originario prevedeva l’installazione di una zona verde attrezzata, per l’attività sportiva e ricreativa. Una parte del terreno era stata destinata a un “campo pratica” da golf eco-sostenibile, cioè uno spazio da allenamento con postazioni fisse, da realizzare secondo i criteri di compatibilità del Protocollo d’intesa sottoscritto dalla Federgolf e dalle principali associazioni ambientaliste (Wwf Italia, Legambiente, Federparchi, Fai, MareVivo). Sarebbe stato il primo del genere in Europa, all’interno di un’area verde urbana da riqualificare, dotato anche di una forte attrattiva turistica. E il progetto aveva già ottenuto il “Nulla Osta” paesaggistico da parte degli uffici della Regione Lazio. Ma il golf in Italia, a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, negli Stati Uniti e ormai anche in Cina e nei paesi arabi, viene considerato ancora uno sport esclusivo, d’élite, com’era per il tennis e per lo sci fino a qualche decina di anni fa. E così il progetto del “Borgo Piccolomini” ha suscitato un’ondata di reazioni e proteste a livello di quartiere, in buona parte demagogiche e strumentali, guidate fra gli altri da quel Vincenzo Maruccio, ex consigliere regionale dell’Italia dei Valori, arrestato a suo tempo dalla Guardia di Finanza per peculato. A cui s’è aggiunta  l’ostilità della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici.

Con un investimento complessivo di oltre quattro milioni di euro, quasi totalmente finanziato da capitali privati, ora il progetto è stato riformulato e ribattezzato “Parco Piccolomini” (vedi il link qui sotto), ottenendo il 14 luglio 2014 in via preliminare l’autorizzazione della Soprintendenza. Si tratta, come spiega Manni, di “una piattaforma aperta in grado di mescolare socialità, aggregazione intelligente, eno-grastronomia, paesaggio, natura, agricoltura, biodiversità, sostenibilità, arte contemporanea, arti performative tanta tecnologia”. Un parco multitematico, insomma, a disposizione della comunità, per il quale sono previsti fin dai primi giorni di apertura oltre 30 posti di lavoro, riservati per la maggior parte ai giovani.

 

ALLEGATI (click per visualizzare):

1. IL PROGETTO
2. La storia del progetto
3. La scheda

 

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VECCHIO RUDERE SUL PORTO DI LEUCA

In quella “perla” della Puglia e del Salento che è Santa Maria di Leuca, punta estrema dell’Italia chiamata perciò “finis terrae”, c’è da quasi un secolo un eco-mostro che si potrebbe definire d’epoca. Costruita nel 1928, l’ex Colonia Scarciglia ospitava durante il fascismo le vacanze estive dei bambini delle famiglie più povere e indigenti. Con la sua mole imponente, l’edificio incombe proprio sul porto e su un bellissimo tratto di litorale, a ridosso dell’area dove si trova il faro di Leuca sull’estremo lembo di Punta Meliso. Al di sotto della costruzione, uno splendido panorama di scogliere e grotte.

Da molti anni, ormai, la colonia è abbandonata e versa in stato di degrado. Solo una “gabbia” di ponteggi la tiene ancora in piedi. Quel rudere è un obbrobrio che deturpa il profilo della costa e tutto il paesaggio circostante. Se un edificio del genere fosse stato costruito oggi, la magistratura ne avrebbe ordinato senz’altro la demolizione.

L’ex colonia Scarciglia è al centro di un acceso dibattito sulla sua possibile futura destinazione: un museo del mare o un hotel a cinque stelle? Qualche tempo fa, se ne interessò Roberto Colaninno, l’imprenditore e finanziere di origini pugliesi, già amministratore delegato dell’Olivetti e poi presidente di Telecom, che da questi parti ha acquistato una villa ottocentesca affacciata sul mare. La sua idea era quella di riqualificare l’edificio per trasformarlo in un albergo moderno. Ma le resistenze e gli interessi locali, in un rimpallo continuo di responsabilità tra la Provincia di Lecce e il Comune di Santa Maria di Leuca, hanno bloccato finora l’operazione.

Un fatto, però, è certo. Quell’obbrobrio non può restare così com’è. Delle due, l’una: o la colonia viene ristrutturata e recuperata oppure bisogna abbatterla, ammesso poi che qualche ente pubblico abbia i soldi per realizzare un’operazione del genere.

Antonio Greco, Lecce


quell’albergo della vergogna

Inserito dal 1997 tra i patrimoni mondiali dell’umanità dall’Unesco, il comune di Porto Venere (scritto anche Portovenere) è una perla incastonata in quel paradiso

terrestre costituito dalle Cinque Terre, in Liguria. Un meraviglioso pezzo d’Italia che comprende altrettanti incantevoli borghi: Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola, Riomaggiore. Siamo nel golfo di La Spezia, denominato il “Golfo dei Poeti” perché nel corso del tempo ha ospitato molti scrittori e letterati, tra cui Lord Byron, la poetessa George Sand e lo scrittore Percy Shelley, annegato qui nel luglio 1882 durante una tempesta mentre navigava verso San Terenzo dove risiedeva.

Fra l’estremità della penisola su cui sorge Porto Venere e l’isola di Palmaria, c’è appena un braccio di mare. E proprio su questo “anfiteatro d’acqua” s’affaccia un vecchio e suggestivo albergo che una volta era frequentato da una raffinata clientela di turisti stranieri e in particolare americani. Ma da molti anni ormai l’albergo è chiuso. Abbandonato e diroccato: tanto che il proprietario è stato costretto, per motivi di sicurezza, a puntellarlo con una gabbia di ponteggi.

“VERGOGNA: da 27 anni e +” , si legge su una lamiera arrugginita che circonda l’albergo. Ed effettivamente si tratta di uno sfregio a tutto l’ambiente e al paesaggio. Chissà che cosa c’è dietro. Qualcuno conosce la storia di questo ennesimo caso di degrado? Perché l’albergo non viene ristrutturato o al limite espropriato? Sono pronto a scommettere che si tratta di un altro mistero glorioso della nostra burocrazia.

Giorgio Sansa (Genova)

 

RIFIUTI, INCIVILTÀ “INDIFFERENZIATA”

Si predica bene di “raccolta differenziata”: rifiuti organici, carta e cartone, vetro, alluminio eccetera eccetera. Ma si pratica male, molto male. A parte le inefficienze e i disservizi dell’Ama a Roma, c’è ancora tanta maleducazione e tanta inciviltà…indifferenziata!

Vi invio un paio di foto scattate negli ultimi giorni in una via del quartiere Pinciano, a pochi passi da Villa Borghese. Non è una borgata, non siamo in periferia. Ma in una delle zone più prestigiose della Capitale.

Come si fa ad abbandonare per strada, in mezzo ai cassonetti e alle auto parcheggiate, una vecchia rete metallica da letto? Questo è un atto vandalico, uno sfregio al decoro urbano! Bisognerebbe individuare e punire i responsabili di questi gesti incivili, compiuti ai danni di tutta la comunità cittadina.

 Gianni Gabbi, Roma

 

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C’ERA UNA VOLTA L’EDICOLA…

In molte città, specie nelle più grandi, ci sono monumenti che nessuno degna di uno sguardo, su cui non si posano gli occhi di turisti, pendolari o pellegrini.  Sono le vecchie edicole di giornali. Una volta “piccoli templi”  di quotidiani e settimanali, riviste e fumetti, buste regalo e figurine. Oggi, che parole e immagini hanno preso a correre nella rete, le edicole sono spesso ridotte a scheletri di lamiera, a scarti, ad archeologia senza valore.

Eppure c’è stato un tempo in cui quel piccolo tempio aveva i suoi officianti  e i suoi fedeli, che ogni mattina, dopo il caffè del risveglio e prima del treno per il lavoro fuori porta, cercavano i racconti di carta e inchiostro, profumo della giornata che iniziava.

Le edicole erano uno dei luoghi in cui la notte passava le consegne al giorno. E i pacchi di giornali accatastati erano le sentinelle che scrutavano l’alba, i messaggeri delle storie piccole e grandi, di divi e poveri cristi,  campioni e scartine,  acrobati e nani, cantastorie e cialtroni.

Un ritrovo di umanità, un crocevia di sguardi e mezze frasi, di indugi e chiacchiere, una finestra sulla città e sul mondo, da dove sbirciare sulla vita degli altri. Con la complicità dell’edicolante, spesso una specie di confidente, una delle prime persone che incontravi nella lunga giornata e che ti accoglieva di primo mattino con una battuta o un sorriso. L’edicola come spazio del tempo sospeso, una retroguardia dove indugiare prima di andare sulle frontiere del nuovo giorno.

Chi glielo spiega ai “nativi digitali” che oggi inseguiamo fingendo di essere come loro, che noi avremmo voluto morire pellegrini di carta? Siamo figli e nipoti di quelli che inumidivano il dito per sfogliare il giornale, per scoprire cosa c’era nella pagina successiva, per andare allo sport, o alla pagina dei morti, o a quelle del cinema, delle “lettere al direttore” dove cercare un posticino al sole nel sognato mondo dei giornali?

Sono storie incredibili che oggi non strappano, forse, neppure un sorriso di sufficienza. Sono gli “amarcord” di chi ha amato i “freschi inchiostri dell’alba” oggi rinchiusi per sempre nelle vecchie edicole, noti solo a chi è cresciuto fra loro. Oggi i new media non hanno odore, tutti perfetti e senz’anima. Algidi e lontani, “intoccabili” senza il soffio della spesso miserevole vita che dicono di voler raccontare.

 Valentino Losito, presidente Ordine Giornalisti di Puglia (Bari)