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Operazione Certosa

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La Certosa di Trisulti è uno dei 23 progetti scelti dal FAI (Fondo Ambiente Italiano), su 103 presentati in tutta Italia, che si aggiudicheranno i finanziamenti stanziati nell’ambito dell’iniziativa “Luoghi del Cuore”, per recuperare e salvaguardare monumenti e paesaggi italiani dimenticati, o in forte stato di degrado, segnalati ogni anno dai cittadini attraverso un censimento. Allo storico convento di Collepardo, in provincia di Frosinone, verrà assegnato un fondo di 30mila euro, grazie all’instancabile lavoro degli “Amici della Certosa di Trisulti”, insieme ad altre associazioni locali (Naturnauti, Slow Food Frosinone, Lega Ernica e Cavalieri di Montagna), che per mesi hanno sensibilizzato l’opinione pubblica richiamando l’attenzione con iniziative culturali, turistiche e sportive. A questo si aggiungerà anche un contributo liberale che Aboca, azienda di prodotti naturali per la salute, aveva assicurato già nello scorso giugno, appoggiando l’operazione senza riserve.

A causa dell’iniziale resistenza da parte della Soprintendenza locale, a cui spettava la tutela dell’immobile, nel giugno scorso le associazioni erano state costrette a presentare un progetto incentrato esclusivamente sulla valorizzazione del sito, comunque auspicabile vista la scarsa conoscenza del monastero, escludendo però interventi di restauro. Dopo il cambio di direzione, avvenuto lo scorso autunno, che ha trasferito la certosa sotto la giurisdizione del Polo Museale regionale del Lazio, s’è ottenuto finalmente il permesso per intervenire sulle strutture di questo monumento nazionale.

In una nota diffusa nei giorni scorsi, il FAI ha annunciato che proprio in accordo con il Polo Museale “sosterrà il recupero della facciata della chiesa a meno che il nuovo direttore del Polo, in procinto di intraprendere una serie di ricognizioni sul complesso, non valuti ulteriori e maggiori urgenze”. La somma stanziata dal Fondo Ambiente Italiano, di cui è presidente onorario Giulia Maria Mozzoni Crespi, è un primo passo avanti importante verso la salvaguardia e la conoscenza di uno dei monasteri più belli e affascinanti del nostro territorio. Ma per far fronte al grave degrado della Certosa, e in particolare alle infiltrazioni d’acqua che minano quotidianamente la stabilità strutturale dei tetti e della meravigliosa volta affrescata della chiesa, sarebbe auspicabile un intervento di restauro più esteso da parte del legittimo proprietario dell’immobile, cioè dello Stato italiano.

Nel frattempo gli “Amici”, insieme alle altre associazioni locali, continueranno a promuovere varie iniziative, per mantenere viva l’attenzione e impedire che l’intervento del Fai resti isolato. Ormai è chiaro, infatti, che la Certosa di Trisulti potrà sopravvivere all’implacabile scorrere del tempo – e magari rinascere a nuova vita – soltanto grazie alla conoscenza e alla diffusione della sua storia straordinaria che appartiene a tutti noi.

 

Valeria Danesi

 

 

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1. PROGETTO CERTOSA DI TRISULTI

 

 

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RAGGI DI VERDE OPPURE NO?

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Precipitata al penultimo posto nella classifica di gradimento compilata da IPR Marketing per il Sole 24 Ore, passando in sei mesi da un consenso iniziale del 67,2% al 44% e perdendo così ben 23,2 punti percentuali, Virginia Raggi rischia di deludere in particolare le attese degli ambientalisti. Fra le tante promesse fatte in campagna elettorale, la sindaca grillina di Roma sembra orientata a tradire anche quella sulla “Tangenziale verde” che avrebbe dovuto circondare la stazione Tiburtina e contribuire così a riqualificare tutta la zona, dotando la Capitale di una moderna struttura all’avanguardia nel mondo.

Il progetto, elaborato dall’architetta canadese Nathalie Grenon dello Studio Sartogo Associati, fu presentato all’epoca del sindaco Ignazio Marino e riscosse un largo apprezzamento, ottenendo il sostegno convinto della Coldiretti. Sul modello della “High line” di New York, dei “jardins partage” di Parigi e dei “community gardens” di Londra, puntava a sostituire l’attuale nastro di asfalto e cemento con una striscia “green” lunga 1.700 metri e larga 20, destinata a ospitare orti urbani, spazi sportivi e ricreativi, un vigneto, un “giardino dei nonni e dei nipoti” e infine un mercato rionale interamente coperto da un tetto fotovoltaico. Il complesso è stato studiato per essere completamente autosufficiente, con l’installazione di pannelli solari e un articolato sistema di acque reflue e vasche di fitodepurazione.

Ora, invece, la giunta capitolina è intenzionata ad abbattere il “serpentone” di acciaio lungo 450 metri davanti alla Tiburtina, per realizzare un boulevard delimitato da due file di alberi. Un progetto, quindi, molto meno ambizioso e innovativo che richiederebbe 15 mesi di lavori. Ma, soprattutto, non risolverebbe l’esigenza di riqualificare tutta l’area circostante sul piano urbanistico e ambientale.

Dopo il sostanziale via libera al nuovo stadio di calcio della Roma nel quartiere della Magliana, lo stop alla “Tangenziale green” non gioverà certamente all’immagine e alla popolarità della sindaca grillina che s’era presentata come una paladina dei verdi romani. Il no a questo progetto diventa perciò una cartina di tornasole per la sua amministrazione. È vero che Roma è “la città più bella del mondo”, con il suo straordinario deposito storico e artistico, ma alcuni quartieri sono particolarmente degradati e non solo in periferia. Il Tiburtino e tutta la Capitale rischiano così di perdere un’occasione per arricchire quel patrimonio all’insegna della modernità.

Chiara Barberi

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“NASONI” HI-TECH, ACQUA GRATIS

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Saranno cento in totale le “Case dell’Acqua” che l’Acea (Azienda Comunale Energia e Ambiente) prevede di installare entro il 2016, di cui circa 60 a Roma e le altre 40 nei Comuni della Provincia. Acqua fresca e frizzante, erogata gratis, per un risparmio di 130 euro annui a famiglia. Oltre ai benefici economici, i “nasoni” (dal nome delle antiche fontanelle pubbliche con il rubinetto ricurvo)  porteranno anche significativi vantaggi ai cittadini in termini di sostenibilità ambientale: a fronte di un’erogazione gratuita di circa 60mila metri cubi di acqua all’anno, si stima una riduzione di 1.800 tonnellate di bottiglie di plastica, pari a 5mila tonnellate di anidride carbonica che altrimenti sarebbero state emesse per produrle, trasportarle e smaltirle.

L’iniziativa dell’Acea, una delle principali multiutility italiane, primo operatore idrico italiano e tra i principali player nazionali nella fornitura di elettricità,  avrà quindi un doppio effetto: economico ed ecologico. Un’operazione promozionale ad alto valore ambientale, nel quadro dei servizi offerti alla popolazione romana. Ma anche un modello da replicare magari altrove, in funzione della lotta all’inquinamento e a tutela dell’aria che respiriamo.

Oltre a consentire ai cittadini di approvvigionarsi liberamente di acqua fresca (9 gradi) e controllata sia naturale sia gasata, con dosi da bicchiere o da un litro, le “Case” offriranno anche la possibilità di ricaricare per strada telefonini o tablet, attraverso le porte Usb installate sulle pareti esterne, e di consultare informazioni di pubblica utilità (previsioni meteo, info sul quartiere, comunicazioni Acea) su uno schermo ad alta definizione.

“Le nostre Casine – spiega il Presidente di Acea, Catia Tomasetti – sono uno strumento di welfare e rappresentano un segnale concreto di attenzione e valorizzazione del territorio da noi servito. Stiamo costruendo un’azienda sempre più attenta alle necessità dei propri utenti e in grado di gestire servizi e infrastrutture moderne e innovative. Con questa iniziativa, contiamo di aver fatto un altro passo in questa direzione per noi strategica”.

Conf_casa_acqua_25L’Amministratore delegato dell’azienda, Alberto Irace, aggiunge: “Siamo davvero orgogliosi di offrire ai cittadini un nuovo servizio pubblico, efficiente e innovativo. “Le Casine rientrano nel programma di investimenti che, in accordo con l’Ente d’Ambito, realizzeremo nei prossimi 3 anni per innovare fortemente le reti del servizio idrico integrato a Roma e Provincia. Crediamo molto nelle opportunità che si possono attivare in questo settore, facendo leva sulle nuove tecnologie e sull’innovazione dei processi lavorativi”.

FOTO:

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VIDEO:

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Save Sammezzano

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A Leccio, frazione di Reggello in provincia di Firenze, eccentricità e bellezza si fondono nelle architetture dell’incredibile Castello di Sammezzano e nel parco storico che lo circonda, sua naturale e rigogliosa cornice di 65 ettari di terreno e oltre 130 specie diverse di piante esotiche.

La struttura, sorta agli inizi del XVII secolo, fu restaurata e trasformata nella seconda metà dell’Ottocento su progetto dell’allora proprietario Ferdinando di Panciatichi Ximenes d’Aragona, brillante architetto e poliedrico studioso dai disparati interessi.

Il risultato di questa ristrutturazione fu la creazione di un unicum nel panorama italiano, ma anche europeo, in stile liberty – orientalista, dove le murature delle volte e delle pareti si smaterializzano in un fantasioso vorticare di forme moresche dai colori vivaci e brillanti.

Nonostante l’atmosfera fiabesca lo avvolga, il lieto fine non sembra essere previsto per il castello che appare, invece, schiacciato sotto al peso dell’indifferenza delle istituzioni italiane, oltre che dalle sfortunate vicende che sembrano perseguitarlo concorrendo al degrado che giorno dopo giorno offusca e mina la bellezza del luogo.

Fallito l’albergo di lusso, che dal dopoguerra all’inizio degli anni Novanta occupò le stanze dell’immobile, influendo negativamente sul suo stato conservativo, fu acquistato, nel 1999, dalla società italo – inglese ‘Sammezzano Castle srl’ con l’obiettivo di creare un programma di recupero e valorizzazione, grazie anche al coinvolgimento di ulteriori finanziatori, teso al rilancio turistico ed economico del sito e del territorio circostante.

Ma le ambizioni dei nuovi proprietari svanirono dopo pochi anni; infatti, il terribile attentato dell’11 Settembre del 2001 alle Torri Gemelle, oltre a segnare per sempre le coscienze occidentali, rese impossibile il reperimento dei fondi necessari al progetto di restauro.

Una situazione d’impasse, quindi, che, prolungatasi fino ai giorni nostri, ha visto costretti i proprietari a rimettere sul mercato l’immobile attraverso delle aste giudiziarie, il 20 e il 27 ottobre 2015, andate purtroppo deserte destando così non poche preoccupazioni sulle sorti del castello. Preoccupazioni nate soprattutto tra quei cittadini che nel corso degli ultimi anni hanno affiancato attivamente i proprietari nella valorizzazione e nella diffusione della conoscenza di questo luogo, grazie anche alla creazione di un comitato locale (Comitato FPXA) che, profondamente legato al territorio, ha permesso, contando solo sulle proprie forze, al grande pubblico di visitare questo gioiello orientalista.

Quindi, esisterà mai un futuro per Sammezzano? Cosa accadrà nella prossima asta giudiziaria fissata per i primi mesi del 2016? Ci sarà mai un nuovo proprietario e che piani avrà per questo unicum del nostro patrimonio culturale e paesaggistico? Ma soprattutto: lo Stato Italiano, che più di tutti dovrebbe avere a cuore le sorti dei propri beni storico – artistici, che cosa sta aspettando per intervenire? La denunciata mancanza di fondi non può diventare sempre una scusa per un immobilismo cieco e totale.

In attesa di ottenere risposte a questi spinosi quesiti, i cittadini non si arrendono e continuano a mantenere alta l’attenzione sul luogo e ognuno di noi può sostenerli firmando la petizione online ‘Save Sammezzano’ che, proprio per risvegliare dal torpore il ministero dei Beni culturali, si pone come obiettivo quello di acquistare lo sfortunato e onirico maniero per garantirne la sopravvivenza.

Valeria Danesi

FOTO:

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NO-TAP, SÌ TAP

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Nell’antico palazzo progettato dall’architetto Duilio Cambellotti, sede dell’Acquedotto Pugliese in via Cognetti a Bari, è esposto un grande quadro d’epoca che raffigura gli imponenti lavori di scavo per la posa delle tubature nelle nostre campagne, in mezzo a una distesa di ulivi secolari. Devo dire la verità: la prima volta che l’ho visto, mi ha fatto una certa impressione. Poi ho riflettuto sul fatto che quell’opera colossale fu realizzata all’inizio del secolo scorso per costruire l’acquedotto più grande d’Europa e servire la “Puglia sitibonda” che, non avendo – com’è noto – rilievi montuosi sul suo territorio, è l’unica regione meridionale senza acqua propria. E così mi sono in qualche modo consolato.

Non so se a quei tempi qualcuno protestò o si oppose per un intervento che aveva indubbiamente un forte impatto sull’ambiente, sulla natura o sul paesaggio: per ironia della storia, ormai la superficie di quel tracciato è diventata anche un’attrazione per il cicloturismo internazionale. So bene, invece, che l’acqua è un bene primario ed è assai diversa dal gas. Ma, fatte ovviamente le debite differenze, mi sembra che oggi il progetto della Trans Adriatic Pipeline (Tap) sia paragonabile a quello d’inizio ‘900. Certo, un acquedotto non è un gasdotto. Eppure, la rete che dovrebbe portare il metano dal Mar Caspio in Puglia e in Europa, approdando sulle coste del Salento, potrebbe avere una funzione analoga, altrettanto importante per noi e per tutto il Continente.

Milito sul fronte ambientalista da una quarantina d’anni e ho combattuto con le armi del giornalismo numerose battaglie, come quella contro le trivellazioni petrolifere in Val di Noto, scrigno del Barocco siciliano a cui quello leccese non ha certamente nulla da invidiare. Non ignoro affatto le incognite e i rischi di un’opera del genere. E tuttavia in nome di quello che chiamo un “ambientalismo sostenibile”, compatibile cioè con le ragioni del progresso e del benessere, ritengo che anche in questa occasione sia opportuno fare un calcolo costi/benefici, in un’ottica regionale, nazionale ed europea: stiamo parlando, infatti, di un progetto strategico e di una priorità per la politica energetica dell’Europa.

D’altra parte, se la Campania, la Basilicata e il Molise si fossero rifiutate di concedere l’acqua delle loro montagne alle nostre pianure, noi pugliesi che cosa avremmo detto e fatto? Non voglio qui apparire provocatorio. Auspico piuttosto che si possa riflettere più costruttivamente di quanto non si sia già fatto finora: non per ingaggiare una “guerra di religione”, schierandosi per il Sì o per il No e dividendosi ancora una volta tra guelfi e ghibellini, ma per fissare magari regole e criteri da osservare a tutela dell’ambiente, dell’agricoltura, del turismo e infine dell’occupazione. Il recente crollo sul Lungarno a Firenze, proprio per la rottura di una tubazione dell’acqua, dimostra del resto che anche in questo campo la prevenzione e l’ordinaria manutenzione sono sempre indispensabili.

Fra tutte le fonti fossili, rispetto al petrolio e al carbone il gas naturale rimane quella più pulita e sostenibile. E in attesa di completare la transizione alle energie alternative, per il momento non possiamo permetterci il lusso di trascurarla o di abbandonarla. I rischi maggiori per l’ecosistema riguardano, peraltro, i siti di estrazione che in questo caso si trovano in Azerbaijan: a volte, infatti, l’abbassamento della pressione sotterranea può produrre fenomeni di subsidenza. Ma comunque negli ultimi quarant’anni, fra il 1970 e il 2011, non s’è verificato alcun incidente nelle reti di metano con tubi di portata superiore ai 25 millimetri (lo spessore di quelli del Tap sarà di 26,8).

Se si osserva poi la cartina geografica con
l’intero tracciato del “Corridoio Meridionale”, lungo in totale 3.500 chilometri dal giacimento di Shah Deniz sul Mar Caspio fino alla costa pugliese, chiunque può rendersi conto ragionevolmente che questo è l’approdo più plausibile.

È necessario, però, ridurre al minimo l’impatto ambientale, rispettando rigorosamente tutti gli standard internazionali di sicurezza, in difesa della popolazione, della salute e del territorio. Tanto più per la “bretella” di circa 55 chilometri, a cavallo delle province di Lecce e di Brindisi, affidata all’italiana Snam che già gestisce una rete nazionale di 35.000 chilometri, vanta una collaudata esperienza anche sul piano del ripristino naturale e offre ampie garanzie di affidabilità.

Questa non è soltanto una questione di carattere economico o ambientale. La Puglia deve salvaguardare innanzitutto la fama e l’immagine che il Salento ha saputo conquistarsi sul piano della cultura, dello spettacolo e del turismo. Ma, in vista di un referendum popolare che contempla anche la modifica del Titolo V della Costituzione per ridurre i poteri delle Regioni nei confronti del governo centrale, il gasdotto trans-adriatico può diventare un paradigma della politica energetica e dei rapporti che la regolano: in particolare, quelli fra lo Stato e le autonomie locali. Se le rivendicazioni territoriali dovessero prevalere sull’interesse generale, dell’Italia e dell’Europa, per paradosso noi pugliesi potremmo rischiare di rimanere senza gas e senz’acqua.

Giovanni Valentini
(da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 1° giugno 2016)

 

 

UN “PROGETTO DiVINO”

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Nell’Italia dei giorni nostri, convivono due anime: quella di un “Bel Paese”, ricco di straordinarie bellezze artistiche e paesaggistiche debitamente valorizzate; e quella di un “Brutto Paese” drammaticamente schiacciato dal peso di un patrimonio culturale abbandonato, fatiscente e dimenticato.  Un “Brutto Paese” al quale siamo ormai abituati e assuefatti e che sembra affondare le proprie radici più profonde soprattutto nel Sud d’Italia, emblema di un territorio offeso e svilito che invece potrebbe dare tanto in termini di cultura e turismo. Ma il Meridione, per fortuna, non è soltanto teatro di malaffari, contraddizioni o sprechi. È anche un luogo dove è possibile incontrare dei giovani che non si arrendono al deprimente stato attuale delle cose, ma anzi lo fronteggiano grazie allo studio e all’amore per il proprio territorio cercando di proporre soluzioni concrete contro questa inesorabile perdita di storia, arte e tradizione.

È il caso di un gruppo di universitari messinesi (Marilena Amato, Alessia Cacciatore, Davide Basile e Davide Cambria) che nel 2010, in seno a un laboratorio di restauro promosso dalla Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, ha sviluppato un progetto di valorizzazione e riqualificazione per un malandato monastero normanno che sorge a Mili S.Pietro, piccola frazione di Messina. Nonostante che lo Stato italiano, negli anni Sessanta, abbia riconosciuto alla chiesa monasteriale un valore storico-artistico restaurandola e sottoponendola al vincolo di tutela, una sorte analoga non è toccata purtroppo agli altri ambienti del cenobio, ormai in avanzato stato di degrado e oggetto di contesa in una diatriba ereditaria. Ed è proprio la drammatica condizione in cui versa il monumento ad aver spinto questi giovani studiosi a sceglierlo come oggetto delle proprie ricerche.

Il risultato è un brillante progetto intitolato ‘Spirito DiVino’ che, oltre a porsi come obiettivi primari la valorizzazione e la promozione del monastero sconosciuto al grande pubblico, si lega saldamente al territorio prendendo spunto proprio da ciò che può offrire: un vino autoctono di ottima qualità. Nel pieno rispetto del bene, ‘Spirito DiVino’ prevede – oltre al recupero degli ambienti monastici – anche la creazione di uno spazio aggregante e generatore di sviluppo economico, a uso della comunità locale, dove si fondono i caratteri dell’azienda vinicola e della cantina sociale, ma anche del moderno wine bar e dell’enoteca. Un progetto, quindi, che se uscisse al di fuori dall’università e venisse preso in considerazione dalle autorità locali, potrebbe rappresentare per il monastero un’occasione unica di tornare a nuova vita, scrollandosi finalmente di dosso incuria e rovina, richiamando anche alle proprie responsabilità quegli enti, oggi latitanti, preposti alla sua salvaguardia.

In attesa che le sorti di Mili S. Pietro virino verso una direzione più fortuna e più rispettosa della sua storia, un plauso speciale va comunque ai quattro giovani studiosi che attraverso la loro creatività e intelligenza rappresentano un modello per il rilancio del Mezzogiorno d’Italia, per la tutela e la valorizzazione del suo patrimonio storico, artistico e culturale.

 Valeria Danesi

 

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1. MILI (Storia)

2. MILI (Scheda progetto)

 

FOTO:

 

Foto 1- Veduta d’insieme del complesso monastico di Mili S. Pietro.
Foto 1- Veduta d’insieme del complesso monastico di Mili S. Pietro.
Foto 2- Veduta della prima corte del monastero, della chiesa e del fatiscente fabbricato annesso nel XIX° secolo.
Foto 2- Veduta della prima corte del monastero, della chiesa e del fatiscente fabbricato annesso nel XIX° secolo.
Foto 3- Tetti pericolanti negli ambienti monastici.
Foto 3- Tetti pericolanti negli ambienti monastici.
Foto 4- Abside normanna della chiesa monasteriale.
Foto 4- Abside normanna della chiesa monasteriale.
Foto 5- Forte stato di abbandono in cui versa il complesso.
Foto 5- Forte stato di abbandono in cui versa il complesso.

 

VISUAL:

 

Visual 1- Riuso di uno degli ambienti monastici sviluppato nel progetto ‘SpiritoDiVino’.
Visual 1- Riuso di uno degli ambienti monastici sviluppato nel progetto ‘SpiritoDiVino’.
Visual 2- Creazione di un wine bar all’aperto .
Visual 2- Creazione di un wine bar all’aperto .
Visual 3- Interno dell’ipotetico wine bar o enoteca.
Visual 3- Interno dell’ipotetico wine bar o enoteca.
Visual 4 – Ipotetica cantina sociale.
Visual 4 – Ipotetica cantina sociale.
Visual 5- Le botti di vino dell’ipotetica cantina sociale.
Visual 5- Le botti di vino dell’ipotetica cantina sociale.

 

SOSTENIBILITÀ, TERNA LEADER

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Per il settimo anno consecutivo, Terna – la società che gestisce la rete elettrica nazionale – si conferma un’eccellenza mondiale nelle performance di sostenibilità. Su un “paniere” internazionale composto da 1800 aziende quotate, tra cui solo 13 italiane, Stoxx Global ne ha selezionate 400 per il 2017 inserendo nei suoi “Leaders Indices” quella guidata dalla presidente Catia Bastioli e dall’amministratore delegato Luigi Ferraris. Si tratta di un riconoscimento tanto più prestigioso perché riguarda tutti e tre gli ambiti di analisi presi in considerazione: ambientale, sociale e di governance.

La valutazione di Stoxx Global premia così la strategia di Terna, imperniata sulla sostenibilità come elemento chiave per coniugare investimenti e crescita del Paese. La società era già presente come prima azienda italiana nel settore elettrico del Dow Jones Sustainability Index. A favorire il raggiungimento di questi obiettivi sono stati l’ammodernamento e lo sviluppo di una rete elettrica sempre più sicura, a minimo impatto ambientale e a costi ridotti per la collettività.

Proprio nel quadro di questa strategia aziendale – come ha comunicato a luglio l’ad Ferraris, presentando agli analisti i risultati economico-finanziari del primo semestre – il 21 maggio scorso, alle ore 15, la domanda di energia elettrica in Italia è stata coperta per l’87% da fonti rinnovabili. Una tappa importante sulla strada della “decarbonizzazione”, mentre aumentano sempre più le dismissioni di centrali termoelettriche tradizionali. Per un Paese “turistico” dome il nostro, ricco di bellezze naturali, l’impegno di Terna in difesa dell’ambiente costituisce un supporto rilevante allo sviluppo della prima industria nazionale.

Nel frattempo, la stessa società informa che ad agosto i consumi di energia sono aumentati del 9,5% rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente, arrivando a 26,8 miliardi di kWh: la richiesta è stata alimentata senz’altro dal grande caldo (una media 2 gradi più del 2016) e quindi dall’utilizzazione degli impianti di aria condizionata, ma può rappresentare anche un segnale incoraggiante in una prospettiva di ripresa economica. Nei primi otto mesi dell’anno, infatti, la domanda è cresciuta complessivamente del 2,2%.

 

S.O.S. PER MESSINA

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Quando si dice che il nostro povero Sud potrebbe rinascere all’insegna dell’arte e della cultura, quello di Messina diventa un caso emblematico. Passeggiando per le strade della città, si viene assaliti da un profondo senso d’incredulità prima e di sdegno poi, a causa del diffuso degrado urbanistico. Nonostante i tremendi terremoti del 1783 e del 1908 che ne distrussero drammaticamente le facies medievale e barocca, qui sono conservati ancora oggi numerosi tesori del nostro patrimonio artistico: oltre a testimoniare la grandezza di quello che fu uno dei porti più importanti e ricchi del Mediterraneo e che, fra l’altro, diede i natali ad artisti del calibro di Antonello da Messina, non aspettano altro di essere riscoperti e valorizzati.

Cartacce, rifiuti e scritte sui muri costellano strade, chiese e palazzi che se riportati in auge potrebbero diventare la molla dalla quale far scaturire una vera e propria rinascita culturale. Sale la rabbia nel constatare, per esempio, lo stato di abbandono nel quale versa l’antica chiesa normanna intitolata a S. Giacomo, posta alle spalle dell’abside del Duomo, di cui si intravvedono i resti sotto di una fitta vegetazione.

Il turista, però, non deve farsi scoraggiare da questo degrado: per le vie della città, può “scoprire” le tante testimonianze del particolare eclettismo liberty messinese, nato dopo il 1908 dai progetti di brillanti architetti, come Gino Coppedè (autore dell’omonimo quartiere romano), chiamati a raccolta in terra sicula per ricostruire la città ferita dal sisma. Piccole perle in mattone e ferro battuto fanno capolino tra le moderne costruzioni, tentando di sconfiggere la generale indifferenza che le circonda, non essendo debitamente segnalate, come la centralissima galleria intitolata a Vittorio Emanuele III. All’interno di quello che doveva essere il “salotto buono” cittadino, il visitatore assisterà alla lotta tra le delicate ed eleganti cromie che caratterizzano le vetrate liberty del soffitto e i tanti graffiti che deturpano i muri della struttura, oltre al pavimento in mosaico dalle tessere divelte. Una dimostrazione concreta di come molto spesso la Bellezza soccomba sotto gli effetti dell’inciviltà e dell’ignoranza.

Ma il degrado a Messina purtroppo è di casa e non risparmia nemmeno quello che dovrebbe essere il luogo deputato per eccellenza all’arte e alla conoscenza: il Museo regionale, scrigno delle tele affrescate dal Caravaggio. Una volta raggiunta la méta con un po’ di fortuna, vista la quasi totale assenza di segnaletica stradale, si viene accolti da un malinconico giardino invaso da erbacce e da resti architettonici rinascimentali, abbandonati all’incuria e allo scorrere del tempo. E si resta drammaticamente a bocca aperta di fronte a quella che è l’attuale condizione del Museo. L’incolta vegetazione fa infatti da contorno a due sedi espositive: l’originale ottocentesca, attualmente attiva e troppo piccola però per esporre la collezione nella sua interezza (la gran parte è conservata in magazzini chiusi al pubblico); e quella “nuova” costruita negli anni Settanta del XX secolo. Quest’ultima, mai aperta al pubblico perché inadatta all’esigenze conservative per l’eccessiva presenza di vetro che comporterebbe spese altissime per il condizionamento dei locali, è il simbolo italianissimo di spreco del denaro pubblico.

Le domande sorgono, quindi, spontanee. Perché una città che tanto potrebbe dare al nostro Paese, in termini di turismo e di cultura, vive come sospesa in una bolla di sporcizia e indifferenza? Perché le amministrazioni locali, di qualsiasi orientamento politico, che continuano ad avvicendarsi non intervengono per imprimere un significativo cambio di rotta? Eppure, le risorse artistiche a Messina non mancano. Basterebbe soltanto incentivarne la riscoperta.

Valeria Danesi

 

FOTO (Davide Giannetti):

 

Messina, Piazza Casa Pia, Porta Graziella: la porta barocca è oggetto quotidiano di atti vandalici.
Messina, Piazza Casa Pia, Porta Graziella: la porta barocca è oggetto quotidiano di atti vandalici.
Messina, Piazza Casa Pia, Porta Graziella: scritte vandaliche.
Messina, Piazza Casa Pia, Porta Graziella: scritte vandaliche.
Messina, Linea del tram: sporcizia e abbandono lungo la linea tramviaria.
Messina, Linea del tram: sporcizia e abbandono lungo la linea tramviaria.
Messina, i resti della chiesa normanna di S. Giacomo alle spalle del duomo cittadino.
Messina, i resti della chiesa normanna di S. Giacomo alle spalle del duomo cittadino.
Messina, i resti della chiesa di S. Giacomo invasi dalla vegetazione.
Messina, i resti della chiesa di S. Giacomo invasi dalla vegetazione.
Messina, giardino del museo regionale con i resti architettonici della Messina pre terremoto.
Messina, giardino del museo regionale con i resti architettonici della Messina pre terremoto.
Messina, fontana barocca conservata nel giardino del museo regionale.
Messina, fontana barocca conservata nel giardino del museo regionale.
Messina, ‘nuova’ sede del museo.
Messina, ‘nuova’ sede del museo.
Messina, interno della Galleria Vittorio Emanuele III.
Messina, interno della Galleria Vittorio Emanuele III.
Messina, le scritte deturpano i muri della Galleria Vittorio Emanuele III.
Messina, le scritte deturpano i muri della Galleria Vittorio Emanuele III.
Messina, il pavimento musivo della Galleria Vittorio Emanuele III versa in drammatiche condizioni.
Messina, il pavimento musivo della Galleria Vittorio Emanuele III versa in drammatiche condizioni.

FARI ACCESI

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Si comincia dai simboli geografici, e anche letterari o cinematografici, dei “finis terrae”: i fari marittimi. E poi, nel programma di valorizzazione del patrimonio immobiliare statale, si procederà con il recupero di altri edifici pubblici come le caserme e le carceri.

Sono stati individuati i primi 11 fari italiani che l’Agenzia del Demanio affiderà in concessione, cioè in affitto, ai privati che ne faranno richiesta. Sarà una seconda vita per queste torri sul mare, luoghi magici e abbandonati, che ora con una nuova “destinazione d’uso” potranno essere riadattati e trasformati in strutture turistiche.

Nell’ambito del progetto “Valore Paese – Fari”, uscirà tra settembre e ottobre il bando per assegnare i fari in base a un’idea imprenditoriale innovativa e sostenibile sul piano ambientale. Un’operazione destinata a sostenere il turismo e naturalmente anche l’occupazione, oltreché a salvaguardare il territorio.

Costruiti sulle coste, a picco sul mare, questi immobili pubblici godono di viste suggestive e incomparabili. E perciò, una volta ristrutturati, potranno costituire un’ulteriore attrattiva per i visitatori italiani e stranieri, com’è già accaduto all’estero con le “lighthouse accomodation”: dall’Australia al Canada, dalla Croazia all’Olanda.

L’Agenzia del Demanio, di concerto con il ministero della Difesa e con gli enti territoriali interessati, ha avviato intanto una consultazione pubblica online per raccogliere idee e proposte che terminerà il 10 agosto: (http://www.agenziademanio.it/opencms/it/ValorePaese/valorepaesefari/).

I primi 11 fari che saranno assegnati in concessione si trovano in Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Toscana. Ecco l’elenco completo.

Sicilia: il faro di Brucoli (Augusta), quello di Murro di Porco (Siracusa), quello di Capo Grosso, nell’isola di Levanzo-Favignana (Trapani) e quello di Punta Cavazzi, nell’isola di Ustica.

Calabria: il faro di Capo Rizzuto (Crotone).

Campania: il faro di Capo d’Orso a Maiori (Salerno) e di Punta Imperatore a Forio d’Ischia.

Puglia: il faro di San Domino alle isole Tremiti (Foggia).

Toscana: il faro Punta del Fenaio e quello di Capel Rosso sull’isola del Giglio; quello delle Formiche (Grosseto).

 

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UNA CAPITALE “RINASCENTE”

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Ci sono voluti undici anni, fra progetti, lavori e pratiche burocratiche, per ristrutturare in 1.852 giorni di cantiere l’edificio che ospita ora la nuova sede della “Rinascente”, in via del Tritone a Roma. Un moderno “Palazzo del lusso”, nel cuore della Capitale, con otto piani di negozi “griffati”, due ristoranti gourmet, bar e terrazze, dove si vendono articoli di moda e di gioielleria, abiti uomo-donna e accessori, prodotti alimentari e di profumeria. La “cittadella dello shopping”, com’è stata ribattezzata, si candida a diventare un “luogo iconico” per i romani e per i turisti, pur fra tante bellezze e monumenti del centro storico più grande del mondo.

Sono in totale 14mila i metri quadrati di superficie, con 800 brand presenti. Per acquisire e trasformare i cinque immobili che compongono il complesso, è stato necessario un investimento di circa 200 milioni di euro, di cui 24 per oneri urbanistici versati al Comune di Roma, finanziato dalla società thailandese “Central Group”. Ora, in attesa che Roma finalmente rinasca, la “Rinascente” di via del Tritone darà lavoro a 650 persone.

Al piano -1, il “Palazzo del lusso” offre anche un bell’esempio di recupero archeologico e architettonico: le rovine dell’antico Acquedotto Vergine, con le sue dieci arcate, protetto e illuminato come si conviene alle vestigia della storia. I resti dell’originario impianto romano risalgono al I secolo a.C. e i visitatori possono ammirarlo mentre gustano un aperitivo o un caffè. Non ci sono altri “grandi magazzini” al mondo che possano vantare una simile attrazione culturale.

Il complesso ingloba al suo interno anche un palazzetto dei primi del Novecento, tutelato dalla Sovrintendenza. È una sorpresa nella sorpresa che valorizza ulteriormente questa riuscita operazione di recupero e restauro architettonico. All’ultimo piano, infine, due terrazze incastonate fra i tetti della Capitale con una vista mozzafiato a 360 gradi.

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