Mentre il governo italiano è deciso ad andare avanti sul nucleare, come ha confermato il 27 maggio scorso a Confindustria la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dobbiamo ancora fare i conti con l’eredità dei vecchi impianti dismessi dopo il referendum del 1987. Secondo un’approfondita e documentata inchiesta di Lusiana Gaita, apparsa sul fattoquotidiano.it, ci sono 39 milioni di gigabecquerel (GBq) di radioattività da smaltire, misurati in 23 siti tra ex centrali, depositi principali e centri di ricerca dislocati in tutta la Penisola. E si tratta di un “giacimento” tanto vasto quanto pericoloso: “Il becquerel – spiega la stessa giornalista – equivale a una disintegrazione radioattiva al secondo e racconta molto di più rispetto ai metri cubi o alle tonnellate”.
Quello delle scorie, come si sa, è una specie di maledizione biblica che richiede centinaia di anni per il loro smaltimento. “La radioattività oggi presenta in Italia – si legge nell’articolo del sito diretto da Peter Gomez – è dovuta principalmente alla barre di combustibile esaurito, ossia irraggiato e rimosso dal nocciolo del reattore: 31 milioni di gigabecquerel su 39”.
Finora, l’Italia ha inviato all’estero il 99% del combustibile irraggiato nelle quattro ex centrali nucleari: Caorso (in provincia di Piacenza – Emilia Romagna), Sessa Aurunca (Caserta- Campania), Latina (Lazio) e Trino Vercellese (Piemonte). In attesa della realizzazione del deposito nazionale, tutta questa radioattività dovrebbe rientrare nel nostro Paese nel 2025. Ma non si sa ancora né dove né quando.
Con un costo di 3,7 miliardi di euro, il Gruppo Sogin avrebbe dovuto mettere i sicurezza i rifiuti nucleari entro il 2014, per poi smantellare le centrali entro il 2019. Ma, come ha denunciato la Commissione parlamentare Ecomafie e ha certificato la Corte dei conti, questi piani non sono stati rispettati. Nel 2020, il termine per la dismissione è slittato così al 2036: costo previsto 7,8 miliardi, più del doppio di quanto previsto all’inizio. La società, però, è stata commissariata nel 2022 e ora si parla di un nuovo termine prorogato addirittura al 2052, con un investimento complessivo stimato nell’ordine di 11,38 miliardi.
Al momento, in base a quanto dichiarato al fattoquotidiano.it da Gian Piero Godio, esponente piemontese di Legambiente, “la fonte maggiore di radioattività sono le barre di combustibile che sono stoccati in una manciata di siti”. E soprattutto, nel deposito Avogadro di Saluggia (Vercelli), di proprietà di Stellantis; all’Itec di Rotondella (in provincia di Matera – Basilicata); al Centro comune di ricerca dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. In pratica, tra il sito di Saluggia e il deposito di Avogadro si trova il 75% di tutta la radioattività presente sul territorio nazionale: rispettivamente, 29,2 e 26 milioni di GBq.
Entrambi si trovano in un’area di esondazione del fiume Dora Baltea, lungo circa 170 chilometri, affluente di sinistra del Po. E già quattro anni fa, dopo l’alluvione del 2020, il Premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, allora commissario dell’Enea, parlò di “una catastrofe planetaria sfiorata”. Il rischio è confermato dalla stessa lunghezza del corso d’acqua che scorre nei pressi dei due impianti.
Nel frattempo, come ha scritto pochi mesi fa Marco Alfieri sul Sole 24 Ore, il quotidiano della Confindustria, “la verità è che la ricerca nucleare, anche dopo il referendum del 1987, in Italia non si è mai fermata”. Tant’è che lo stesso giornalista ha riferito in un suo articolo che a Brasimone, nei pressi del lago artificiale sull’Appennino bolognese, la newcleo dell’ex fisico del Cern di Ginevra e imprenditore, Stefano Buono, sta costruendo insieme all’Enea un reattore elettro-riscaldato da 10 megawatt termici e raffreddato a piombo liquido: questo elemento arriva a una temperatura di ebollizione di 1700°, consentendo così una semplificazione degli impianti e un abbattimento dei costi a parità di prestazioni. Il simulatore è stato chiamato “Precursor” e c’è da augurarsi che non annunci tristi presagi.